Negli aerei pisani che salvano le vite
In occasione di un nostro fotoreportage su un’esercitazione di trasporto in “bio-contenimento”, i medici della 46ª Brigata Aerea ci hanno raccontato il loro speciale rapporto con i pazienti (breve, ma spesso decisivo)
Nella foto: Una barella viene caricata all’interno dell’aereo
di Tiziana Paladini foto di Enrico Mattia Del Punta
Ci sono dottori che salvano vite senza neanche toccare i pazienti. E ci sono pazienti che viaggiano verso la salvezza con mezzi nati per altri scopi. Sono i pazienti e i dottori che decollano con gli aerei militari: da più di dieci anni l’Aeronautica Militare è impegnata nel Pronto Impiego Sanitario di Urgenza, un’attività assicurata per qualsiasi tipo di emergenza medica che ne richieda l’intervento.
«Le emergenze riguardano pazienti che si trovano in imminente pericolo di vita», ci dice il generale Girolamo Iadicicco, comandante della 46ª Brigata Aerea di Pisa. «Spesso sono piccoli pazienti che vengono portati soprattutto al reparto di terapia intensiva del “Bambino Gesù” di Roma o al “Gaslini” di Genova. In genere non abbiamo più notizie dei pazienti che trasportiamo: salvo casi di rilevanza nazionale evitiamo di chiedere un riscontro agli ospedali, anche per motivi di privacy. Prendere però in carico delle persone, affidarle ai nostri medici e infermieri e poi non saper più nulla di loro ci dispiace».
A questa attività di urgenza se ne affianca una ancora più specialistica che è il trasporto di pazienti altamente infettivi con la modalità di bio-contenimento, ovvero in totale isolamento e sicurezza. Il trasporto in bio-contenimento prevede che il paziente venga messo in una struttura che lo isola dall’ambiente esterno. L’isolamento avviene tramite due sistemi: attraverso la filtrazione dell’aria in uscita dalla barella (vengono utilizzati filtri HEPA che purificano il flusso d’aria del 99,98%) e attraverso l’applicazione di una pressione negativa che fa sì che tutto ciò che, in termini di germi, è all’interno della barella rimanga lì confinato. I medici e gli infermieri possono operare sul paziente grazie a sei coppie di manichette che terminano su un guanto.
Poco più di un decennio fa l’Aeronautica ha deciso di dotarsi di questa capacità, acquisendo speciali barelle e avvalendosi delle competenze del suo personale sanitario. E per lungo tempo solo l’Italia ha avuto questa specificità. In Europa poi si è aggiunta la Royal Air Force britannica. Curiosamente l’Italia aveva acquisito questa capacità proprio dagli inglesi che, pur detenendone il primato, avevano poi deciso di abbandonarla perché troppo dispendiosa per le loro necessità. «Abbiamo aggiunto tanta esperienza a quella che già avevamo – dice Iadicicco – Ci stiamo rivelando leader in questo settore: non a caso, di recente, il Ministro della difesa Guerini ha offerto la nostra capacità alle altre nazioni che aderiscono all’alleanza atlantica qualora ne avessero bisogno».
Con l’emergenza Covid questa peculiarità si è rivelata fondamentale, traducendosi fin dai primi di marzo in missioni di trasporto in bio-contenimento da un ospedale all’altro, soprattutto per alleviare la pressione sul nord Italia. «All’inizio dell’emergenza – spiega il comandante – questo è stato possibile grazie agli elicotteri del 15° Stormo dell’Aeronautica (di stanza a Cervia, ndr). Poi è subentrata la necessità di trasporti presso centri di cura più lontani, in Italia e all’estero, così si è attivata la 46ª con i suoi C130 e i C27J, per la versatilità degli aerei, in grado di trasportare da tre a cinque barelle insieme, e per la velocità dei mezzi».
Così i ritmi di lavoro si sono fatti sempre più serrati. In media ogni anno la 46ª effettua tra le 6 e le 12 missioni. A causa del Covid però nel giro di un mese, a partire dallo scorso 12 marzo, sono stati effettuati 9 voli per 17 pazienti. L’organizzazione di un trasporto in bio-contenimento è complessa. Per approntare l’equipaggiamento c’è bisogno di tempo: la sanificazione delle barelle consiste nell’iniettare e nebulizzare al loro interno una sostanza che, dopo cinque ore, viene fatta evaporare; vengono sanificati tutti i materiali usati, tranne quelli monouso che vengono eliminati. Al rientro da un trasporto, però, la squadra è in grado di ripartire nel giro di sole tre ore, perché altre barelle sono già pronte per essere utilizzate. Il personale sanitario è affiancato dagli specialisti di volo che si occupano delle operazioni di carico e scarico e soprattutto del bilanciamento dei pesi all’interno dell’aereo per garantirne la stabilità e agevolare così il lavoro di medici e infermieri.
Tra i medici coinvolti c’è il tenente colonnello Crispino Ippolito, che lavora all’Istituto di Medicina Aerospaziale di Milano-Linate. È stato richiamato a Pisa essendo un anestesista rianimatore addestrato per il trasporto in bio-contenimento. «Prendersi cura di pazienti Covid – ci spiega – non è come avere a che fare con altri tipi di pazienti. Innanzitutto perché presentano criticità di carattere generale. Inoltre il tipo di barella complica le operazioni, soprattutto di notte, quando la temperatura è più bassa: è come lavorare contro la gravità perché queste maniche di plastica, essendo abbastanza rigide, ostacolano i nostri movimenti». Ippolito spiega che la stabilità in volo sicuramente non è la stessa di quando si lavora “a terra”, ma chi fa questo tipo di lavoro ormai è abituato; gli unici problemi si riscontrano al decollo e all’atterraggio, fasi durante le quali medici e infermieri dovrebbero rimanere seduti. «Soprattutto con i primi pazienti, al momento del decollo è capitato di dover stare in piedi, perché il paziente non era ancora stabilizzato perfettamente dal punto di vista delle sue condizioni cliniche. L’assistenza al paziente ha sempre la priorità. Spesso poi i pazienti sono coscienti e qualche volta spaventati. È comprensibile: le barelle sono una specie di gabbia di plastica, stare lì dentro può essere angosciante. Un paziente che abbiamo trasportato di recente ha avuto un momento di sconforto e ha iniziato a piangere. Allora l’infermiere si è avvicinato, gli ha dato una piccola pacca sulla spalla e hanno iniziato a chiacchierare. Così, piano piano, la tensione si è allentata. È stato un momento molto intenso». I pazienti presi in carico dai medici e dagli infermieri militari per poche ore diventano i “loro” pazienti: «Dobbiamo essere all’altezza dei nostri colleghi degli ospedali, che ce li affidano pieni di speranza. Ci piace dire non tanto che curiamo, ma che “ci prendiamo cura” delle persone che ci vengono affidate. Non solo dal punto di vista clinico, ma anche in senso umano. È impossibile non essere empatici, altrimenti non faremmo questo lavoro. Per questo forse è difficile vederli andare via sapendo che difficilmente avremo loro notizie. Ho quasi paura a chiamare i colleghi per sapere come stanno i pazienti, si rimane sempre in pensiero».
Ogni tanto però arrivano delle belle notizie, anche per l’attività di emergenza “ordinaria”. Come l’anno scorso, quando uomini e donne della 46ª sono stati invitati al “Bambino Gesù” dove non solo hanno potuto conoscere i medici e gli infermieri che hanno curato i bambini portati lì, ma hanno anche saputo che alcuni di loro, nel frattempo, erano guariti e rientrati a casa.