Pisa in vendita

Guglielmo De Stasio, veneziano, ha 57 anni, è docente di violino al conservatorio di Bologna; è konzertmeister dell’Orchestra Antonio Vivaldi di Venezia e direttore artistico di un paio di festival in Sardegna. Al suo fianco siede Maurizio Vassallo, piombinese, anni 65, un passato da geometra, ora anima imprenditoriale e amministrativa. Entrambi durante l’intervista si prodigano a dichiarare come l’acquisizione da parte della loro Gds Arts Management della gestione del Teatro Rossi, uno degli edifici storici di maggior pregio della nostra città, non sia certo fatta con intenti di lucro: i circa 6 milioni di euro previsti per i primi lavori (inseriti nel loro business plan) e i 2mila di affitto mensile che si sono impegnati a pagare al demanio per 30 anni, rendono evidente come l’affare non sia proprio un Affare. Il loro è più un rinnovato mecenatismo. Vassallo mi cita Della Valle, a proposito del Colosseo, e dichiara che lui e una cordata di imprenditori stanno procedendo all’acquisizione/gestione di altri edifici storici della Toscana. “La Toscana è un brand” – specifica – e quindi sarebbero le operazioni che questi luoghi veicoleranno nel loro tornare a vivere, la parte più consistente e articolata dell’operazione. Parlano di guardare alla dismissione del palazzo di fronte al teatro, dove ora sta l’intendenza di Finanza, con interesse, come possibile futuro albergo, chissà. Perché la cosa certa è che Pisa non ha sviluppato un’ospitalità adeguata alle proprie potenzialità e l’Arte deve avere intorno a sé un sistema strutturato per poter funzionare ed essere esaltata. Guglielmo De Stasio ripete come un mantra che il loro teatro sarà “un teatro inclusivo e non esclusivo”; un teatro pronto a ospitare artisti di fama mondiale, ma anche a ricevere le proposte dei cittadini, certo passate prima al suo vaglio “qualità” (gli si può telefonare per prendere un appuntamento; lui promette che ascolterà tutti); ma che soprattutto il primo intento dell’operazione è quello di far diventare il Teatro Rossi un palcoscenico per giovani talenti; quei giovani talenti che lui conosce o ha direttamente formato nei tanti anni di insegnamento e che hanno poche, pochissime occasioni per svilupparsi. Tralasciando che De Stasio promette un restauro filologico che decuplicherebbe i costi e farebbe vecchio e ingessato un teatro “nuovo”, a loro non possiamo che augurare un buon lavoro, nell’interesse di tutti. Come facevano i nostri antenati in epoca medievale, quando per l’incapacità di fare da soli potevano solo augurarsi che il Signore di turno venuto a comandare/colonizzare il borgo fosse particolarmente illuminato, sembra che anche a noi oggi tocchi inevitabilmente fare lo stesso: far gestire il patrimonio pubblico dal privato, dato che le nostre amministrazioni, comunali e regionali, non sono riuscite a trovare negli anni un modo per gestire e valorizzare un bene tanto prezioso. Finalmente ora quelle istituzioni possono tirare un sospiro di sollievo, il demanio ha scelto e a qualcun altro toccherà quella patata bollente; nella speranza che i cittadini dimentichino o non conoscano mai l’esistenza di altre possibilità, ovvero la possibilità di un dialogo forte fra le istituzioni, con il territorio, lo sviluppo di processi partecipati che partono dal coinvolgimento della città tutta, la ricerca di fondi europei; uscendo dal semplice pensiero che il Comune non ha nell’immediato i soldi in tasca per gestire direttamente il bene. Il Comune ha il dovere di studiare e perseguire i processi possibili. Certo di questa seconda possibilità non si dimenticheranno quelli del T.R.A. (Teatro Rossi Aperto) che per anni hanno riempito di attività quel bellissimo luogo, mettendo nell’impresa cuore, dedizione e competenza. Hanno cercato disperatamente di stare a un tavolo inter-istituzionale con Regione, Comune, Soprintendenza, Demanio che magari riconoscesse loro qualcosa per gli 8 anni di esperienza, ma invano.

La politica raramente si sporca le mani a promuovere la cultura e l’arte, specialmente quando il grado di complessità si fa troppo alto; meno che meno quella locale (“Io questo teatro in casa non me lo prendo”, pare sia stata l’affermazione dell’ex sindaco Filippeschi in merito). Ma è possibile che una città come Pisa che ha il suo baricentro nella cultura, sia così incapace o disinteressata alla gestione del suo patrimonio? Perché pur ammettendo che il caso del Teatro Rossi potesse risultare cosa troppo complessa per le competenze medie di un amministratore medio, la partita è tutt’altro che finita dato che a Pisa rimangono chiusi o non utilizzati o sottoutilizzati altri bellissimi spazi di cui nessuno sa additarci il destino. Il Comune ha recentemente stanziato 1,4 milioni di euro per i lavori di ristrutturazione per la splendida chiesa di San Zeno (tetto pericolante) e 900mila (fondi del PNRR) per la chiesa di Sant’Antonio in Qualquonia, vicinissima alla chiesa di San Paolo a Ripa d’Arno; ma si ignora la loro destinazione d’uso. Di altri beni preziosi sono stati addirittura murati gli accessi, vedasi la Limonaia in vicolo del Ruschi, tra via San Francesco e via San Lorenzo. Da quello stabile lì, dove per anni si sono succedute tante attività (e come da copione alla fine un’occupazione), la vita è stata di fatto espulsa. Solo gli alberi di agrumi, che ne caratterizzano il giardino, testimoniano che la vita potrebbe esserci ancora facendo capolino con i loro rami carichi di frutti, oltre i sei metri di muro che ne perimetrano la parte esterna. Lo sappiamo che la Limonaia è della fantasmatica Provincia, ma il silenzio che circonda il suo destino è assordante. Le amministrazioni non dovrebbero non avere un pensiero in merito. Cosa fare del nostro Patrimonio (che non riguarda solo i tesori di prima qualità, ma tantissime altre gioie inutilizzate) dovrebbe essere un pensiero vivo e costante per chi questo tesoro amministra e un gioioso pensiero anche per i cittadini che di quel patrimonio sono costituzionalmente i proprietari. Un patrimonio così ampio che negli ultimi anni siamo passati da avere tante persone senza spazi ad avere tanti spazi senza persone. Siamo convinti che una buona pratica giornalistica consista nel puntare i riflettori su quelle problematiche complesse ma importanti che altrimenti tendono a farsi invisibili. E poi se appare psicologicamente comprensibile cercare di dimenticarsi dei propri debiti, quale più strana follia è quella di dimenticarsi dei propri beni? È con questo spirito che abbiamo dedicato l’indagine di questo numero ai tesori dimenticati di Pisa.