Pisa in vendita

Guglielmo De Stasio, veneziano, ha 57 anni, è docente di violino al conservatorio di Bologna; è konzertmeister dell’Orchestra Antonio Vivaldi di Venezia e direttore artistico di un paio di festival in Sardegna. Al suo fianco siede Maurizio Vassallo, piombinese, anni 65, un passato da geometra, ora anima imprenditoriale e amministrativa. Entrambi durante l’intervista si prodigano a dichiarare come l’acquisizione da parte della loro Gds Arts Management della gestione del Teatro Rossi, uno degli edifici storici di maggior pregio della nostra città, non sia certo fatta con intenti di lucro: i circa 6 milioni di euro previsti per i primi lavori (inseriti nel loro business plan) e i 2mila di affitto mensile che si sono impegnati a pagare al demanio per 30 anni, rendono evidente come l’affare non sia proprio un Affare. Il loro è più un rinnovato mecenatismo. Vassallo mi cita Della Valle, a proposito del Colosseo, e dichiara che lui e una cordata di imprenditori stanno procedendo all’acquisizione/gestione di altri edifici storici della Toscana. “La Toscana è un brand” – specifica – e quindi sarebbero le operazioni che questi luoghi veicoleranno nel loro tornare a vivere, la parte più consistente e articolata dell’operazione. Parlano di guardare alla dismissione del palazzo di fronte al teatro, dove ora sta l’intendenza di Finanza, con interesse, come possibile futuro albergo, chissà. Perché la cosa certa è che Pisa non ha sviluppato un’ospitalità adeguata alle proprie potenzialità e l’Arte deve avere intorno a sé un sistema strutturato per poter funzionare ed essere esaltata. Guglielmo De Stasio ripete come un mantra che il loro teatro sarà “un teatro inclusivo e non esclusivo”; un teatro pronto a ospitare artisti di fama mondiale, ma anche a ricevere le proposte dei cittadini, certo passate prima al suo vaglio “qualità” (gli si può telefonare per prendere un appuntamento; lui promette che ascolterà tutti); ma che soprattutto il primo intento dell’operazione è quello di far diventare il Teatro Rossi un palcoscenico per giovani talenti; quei giovani talenti che lui conosce o ha direttamente formato nei tanti anni di insegnamento e che hanno poche, pochissime occasioni per svilupparsi. Tralasciando che De Stasio promette un restauro filologico che decuplicherebbe i costi e farebbe vecchio e ingessato un teatro “nuovo”, a loro non possiamo che augurare un buon lavoro, nell’interesse di tutti. Come facevano i nostri antenati in epoca medievale, quando per l’incapacità di fare da soli potevano solo augurarsi che il Signore di turno venuto a comandare/colonizzare il borgo fosse particolarmente illuminato, sembra che anche a noi oggi tocchi inevitabilmente fare lo stesso: far gestire il patrimonio pubblico dal privato, dato che le nostre amministrazioni, comunali e regionali, non sono riuscite a trovare negli anni un modo per gestire e valorizzare un bene tanto prezioso. Finalmente ora quelle istituzioni possono tirare un sospiro di sollievo, il demanio ha scelto e a qualcun altro toccherà quella patata bollente; nella speranza che i cittadini dimentichino o non conoscano mai l’esistenza di altre possibilità, ovvero la possibilità di un dialogo forte fra le istituzioni, con il territorio, lo sviluppo di processi partecipati che partono dal coinvolgimento della città tutta, la ricerca di fondi europei; uscendo dal semplice pensiero che il Comune non ha nell’immediato i soldi in tasca per gestire direttamente il bene. Il Comune ha il dovere di studiare e perseguire i processi possibili. Certo di questa seconda possibilità non si dimenticheranno quelli del T.R.A. (Teatro Rossi Aperto) che per anni hanno riempito di attività quel bellissimo luogo, mettendo nell’impresa cuore, dedizione e competenza. Hanno cercato disperatamente di stare a un tavolo inter-istituzionale con Regione, Comune, Soprintendenza, Demanio che magari riconoscesse loro qualcosa per gli 8 anni di esperienza, ma invano.

La politica raramente si sporca le mani a promuovere la cultura e l’arte, specialmente quando il grado di complessità si fa troppo alto; meno che meno quella locale (“Io questo teatro in casa non me lo prendo”, pare sia stata l’affermazione dell’ex sindaco Filippeschi in merito). Ma è possibile che una città come Pisa che ha il suo baricentro nella cultura, sia così incapace o disinteressata alla gestione del suo patrimonio? Perché pur ammettendo che il caso del Teatro Rossi potesse risultare cosa troppo complessa per le competenze medie di un amministratore medio, la partita è tutt’altro che finita dato che a Pisa rimangono chiusi o non utilizzati o sottoutilizzati altri bellissimi spazi di cui nessuno sa additarci il destino. Il Comune ha recentemente stanziato 1,4 milioni di euro per i lavori di ristrutturazione per la splendida chiesa di San Zeno (tetto pericolante) e 900mila (fondi del PNRR) per la chiesa di Sant’Antonio in Qualquonia, vicinissima alla chiesa di San Paolo a Ripa d’Arno; ma si ignora la loro destinazione d’uso. Di altri beni preziosi sono stati addirittura murati gli accessi, vedasi la Limonaia in vicolo del Ruschi, tra via San Francesco e via San Lorenzo. Da quello stabile lì, dove per anni si sono succedute tante attività (e come da copione alla fine un’occupazione), la vita è stata di fatto espulsa. Solo gli alberi di agrumi, che ne caratterizzano il giardino, testimoniano che la vita potrebbe esserci ancora facendo capolino con i loro rami carichi di frutti, oltre i sei metri di muro che ne perimetrano la parte esterna. Lo sappiamo che la Limonaia è della fantasmatica Provincia, ma il silenzio che circonda il suo destino è assordante. Le amministrazioni non dovrebbero non avere un pensiero in merito. Cosa fare del nostro Patrimonio (che non riguarda solo i tesori di prima qualità, ma tantissime altre gioie inutilizzate) dovrebbe essere un pensiero vivo e costante per chi questo tesoro amministra e un gioioso pensiero anche per i cittadini che di quel patrimonio sono costituzionalmente i proprietari. Un patrimonio così ampio che negli ultimi anni siamo passati da avere tante persone senza spazi ad avere tanti spazi senza persone. Siamo convinti che una buona pratica giornalistica consista nel puntare i riflettori su quelle problematiche complesse ma importanti che altrimenti tendono a farsi invisibili. E poi se appare psicologicamente comprensibile cercare di dimenticarsi dei propri debiti, quale più strana follia è quella di dimenticarsi dei propri beni? È con questo spirito che abbiamo dedicato l’indagine di questo numero ai tesori dimenticati di Pisa.

Ma i cittadini sognano pecore elettriche?

Proprio un bel regalo di Natale! Finalmente la città si riappropria dell’ex caserma Artale. L’area, incorniciata da via Derna, via Roma, via Savi e via Nicola Pisano, a due passi da Piazza dei Miracoli, contiene la seconda piazza più grande della città, e torna dalla prossima settimana a essere uno spazio pubblico offerto alla cittadinanza. Dopo anni di impenetrabile e infrequentabile mistero, come caratteristico di tutte le aree militari, lo spazio (ora in attesa di una nuova denominazione), una volta protetto da alte mura e cancelli, diventa per la prima volta poroso e permeabile. Non più chiuso a riccio, piccola cisti monadica posta in uno dei punti più vitali della città, la struttura sa farsi ora tessuto aperto e frequentabile in grado di dialogare con ciò che la circonda. In questo senso la caserma, non più caserma, abbellita dai nuovi cinquanta alberi messi a dimora nella nuova configurazione, sembra rimare col vicino Orto Botanico, offrendosi come nuovo piccolo polmone della città, area di sosta e respiro nel percorso che porta il cittadino o il visitatore pedone dal fuori verso il centro, in una linea che lo congiunge con la preziosa risistemazione dell’Ospedale di Santa Chiara e lo instrada all’entrata della piazza più prestigiosa, in un percorso armonico che sa elevare l’accoglienza a sistema, migliorando anche la qualità di vita dei cittadini.

Nell’area sarà inaugurato uno studentato giovanile, gestito in accordo con il DSU, ricavato dal vecchio complesso delle camerate dei militari e un gruppo di appartamenti di edilizia convenzionata per le fasce più deboli, un intervento dal forte carattere sociale che contribuirà ad aumentare i residenti del centro. Dall’altra parte della piazza l’albergo a 5 stelle, che è stato ricavato dalla palazzina che fu degli ufficiali, offre il secondo lato di questa medaglia che evidenzia nelle due facce le due mission principali della città, quella della formazione universitaria e quella turistica.

Il Teatro del Fante, dato l’ormai completato recupero del Teatro Rossi, in quanto terzo teatro della città è stato ripensato come spazio multimediale che grazie alla sua modularità strutturale interna, sarà in grado di ospitare installazioni, mostre, concerti, musica e teatro, dando vita finalmente a uno spazio multimediale, vetrina di quell’arte contemporanea che a Pisa non ha mai avuto un luogo deputato. Altri volumi non tutelati da vincoli sono stati invece abbattuti, nella piena consapevolezza ambientale di come anche la restituzione di suolo sia parte integrante di una progettazione urbanistica che sappia guardare al futuro.

Quella che avete letto non è una fake news, ma un sogno, un sogno necessario; perché una città sana deve saper sognare e progettare il proprio futuro oltre che celebrare il proprio passato. Parte del sogno è preso anche dal futuro espresso dall’Amministrazione Comunale che nel 2007, quando tutta questa storia delle dismissioni delle aree militari da parte della Difesa prese corpo, aveva cominciato a fantasticare su cosa poteva succedere alla città in seguito al recupero delle caserme. Ma le cose ora potrebbero andare in maniera parecchio differente. L’intera area dell’ex caserma Artale (18.000 mq) è stata ceduta dal Ministero della Difesa al Demanio, da questo alla Cassa Depositi e Prestiti, per circa 8 milioni di euro e infine acquistata a un prezzo da svendita, 4 milioni, dalla San Ranieri Srl, un soggetto privato che risponde all’impresa AD di Firenze che ha presentato il proprio progetto di risistemazione dell’area: in questo lo studentato non è concordato con il DSU, ma sarà semplicemente in linea con le leggi vigenti in fatto di locazione, niente case per le fasce deboli, ma ventiquattro unità immobiliari definite in maniera generica, tranne specificare la presenza di “box auto”. Spunta come un fungo “un parcheggio pubblico multipiano fuori terra per 57 auto” e ci sarà un non meglio definito “albergo” di cui per il momento non si osa dichiarare le stelle. Il teatro non sarà destinato a divenire un centro d’arte contemporanea multimediale, ma un fin troppo spazioso minimarket. Ricavo per il Comune di tutta l’operazione 600.000 euro. È inquietante pensare quanto un bene pubblico prezioso come l’ex caserma Artale possa essere semiregalato a dei privati che ovviamente si muovono dietro la logica del loro profitto. Un processo come questo parte dalla convinzione che l’Amministrazione non ha le forze per amministrare il bene, allora si cerca la quadra nella messa in linea degli interessi del privato con quelli del pubblico, stilando delle indicazioni che vorrebbero essere vincolanti, ma che per il momento, e non solo nel caso specifico, sembrano rischiare di non avere la forza per imporsi. Il problema è che nella ristrutturazione della caserma Artale e dell’adiacente ospedale di Santa Chiara di cui troppo poco si parla (se ne immaginava il completo trasloco a Cisanello entro il 2012) si gioca una delle sfide più importanti per il futuro di Pisa. È inquietante pensare che il dibattito e l’attenzione che ora si sta progressivamente focalizzando sulla questione non ci sarebbero senza l’ostinazione e l’impegno con cui il consigliere comunale Francesco Auletta di “Una città in comune” è riuscito a far venire fuori dai cassetti della burocrazia il progetto che la San Ranieri aveva presentato e portarlo all’attenzione della città. Ne sono derivate assemblee cittadine con consequenziali scambi di idee, prime iniziative e silenziose preghiere nella speranza che il progetto fosse sottoposto a Vas (Valutazione ambientale strategica) e la messa in opera dei lavori ritardata. La cosa è avvenuta dato che la relazione redatta dal Nucleo comunale per le valutazioni ambientali ha sancito che il Piano di recupero della caserma Artale necessita di un maggiore approfondimento delle criticità, “non essendo possibile escludere impatti significativi/negativi sull’ambiente, derivanti dall’attuazione dei relativi interventi”. Le richieste di modifiche porteranno a implementazioni e cambiamenti del Piano, che in una fase successiva prevedranno un momento di consultazione pubblica della durata di 45 giorni in cui chiunque potrà prendere visione del nuovo Piano e presentare proprie osservazioni in forma scritta o elettronica, anche fornendo nuovi e ulteriori elementi conoscitivi e valutabili. E ancora: un appello a sostegno di un ripensamento sui destini dell’area ha trovato tra i primi firmatari studiosi del calibro di Salvatore Settis, Adriano Prosperi, Piero Bevilacqua; in questo, tra le tante richieste, citando il progetto del britannico Chipperfield, vincitore del concorso internazionale bandito quindici anni fa per la “Riqualificazione urbanistica del complesso ospedaliero universitario di Santa Chiara”, si torna ad invocare “la sostenibilità ambientale e sociale e la centralità dell’interesse pubblico, mettendo al centro possibili sinergie con l’Università, il Diritto allo Studio ed in stretto rapporto con l’area del Santa Chiara”. Ma non solo: rumors di palazzo dell’ultima ora dicono che la commissione urbanistica abbia trovato un vizio di forma e che il Piano verrà totalmente invalidato facendo ripartire tutto da zero. Il pericolo di una progettazione semplicemente lucrosa di un bene tanto prezioso e strategico appare per il momento scampato; ma il vero pericolo rimane l’assenza di progetto strutturato che comprenda tutta l’area prossima al Duomo. La mancanza di un pensiero più ampio e di ampio respiro che tracci un disegno armonico e lungimirante evitando quello che potrebbe essere uno sfregio permanente poi difficile se non impossibile da risanare. Un pensiero nuovo che parta anche dal confronto e che chiami a una partecipazione della cittadinanza e di tutti i soggetti interessati. Non può essere insomma sufficiente dire “no” ad alcune proposte, quanto cominciare a immaginare con forza il “come” dello sviluppo cittadino. Una vera rigenerazione urbana partecipata potrebbe essere utile per tutti, per chi amministra, per chi vive la città e per chi è chiamato a risistemarla. I cittadini non dovrebbero avere difficoltà a informarsi, ma essere chiamati a partecipare. I comitati cittadini dovrebbero riempirsi di idee e partecipazione con la stessa abnegazione che è stato possibile vedere alle prime assemblee alla chiesa dei Valdesi sul futuro dell’Artale: persone con faldoni di fogli e documenti, di appunti e possibili risoluzioni. L’affaire Artale potrebbe diventare la prima palestra in cui si coltiva una partecipazione che sa farsi illuminata anche perché perseguita e stimolata. Un momento in cui si coltivano idee talmente nuove e coraggiose da apparire sogni. In un momento in cui la politica non ha il coraggio di programmare a lungo termine, cercare un pensiero che non si consuma nell’immediato ci sembra quanto meno auspicabile.

Il PD pisano: chi l’ha visto?

Dopo le ultime elezioni ce lo dovevamo aspettare, perdere dopo tanti, tanti anni, non è un colpo facile da assorbire per nessuno; i pochi amici rimasti lo ricordano baldanzoso con i suoi 20.551 voti, quando, nel 2008, con il 39,2 % aveva conteso, vincendo poi al ballottaggio, la governance della città a Patrizia Tangheroni; e quando ancora cinque anni dopo, seppure i voti fossero scesi a 13.665, sembrava destinato a far faville… «Certo, non era più l’epoca di Fontanelli, quando le coalizioni di sinistra arrivavano al 57,7% strapazzando tutti al primo turno – lacrimano i miei interlocutori – Ma nessuno poteva presagire i 9.351 consensi dell’ultima tornata elettorale che hanno invitato la destra a gestire la città». «Dovevamo stargli più vicini».

Per capire dove cercarlo ho chiesto aiuto a vecchi amici e conoscenti che con diversi, a volte opposti sentimenti, hanno avuto frequentazioni intense con il PD pisano. Francesco Auletta, capogruppo di Una città in comune, alla sua seconda legislatura di opposizione, mi dice che se lo ricorda in forma nella battaglia per la moschea, anche se poi non ha concluso per tempo i decreti necessari alla sua attuazione, agevolando chi voleva ritardarne e di fatto impedirne la realizzazione. Mi dice che spera di vederlo più puntuale sulla vicenda della base di Coltano, che addirittura ha fatto finta di ignorare, cosa da lui e dai suoi poi smentita; e che gli piacerebbe vederlo farsi vivo sul tema della pace smettendo di assecondare l’aumento delle spese militari e l’invio di armi, che la pace è un tema etico e identitario, uno spartiacque per un pensiero che ancora possa chiamarsi di sinistra. Così come dovrebbe avere un’attenzione maggiore al rapporto fra città e cambiamento climatico, problematizzare per esempio il consumo di suolo, che è invece in aumento: «Si costruiscono residenze malgrado i 4.000 alloggi sfitti»; e la capacità di gestire in maniera frontale le conflittualità sociali, senza ricorrere costantemente alla militarizzazione del territorio. E ancora le problematiche del lavoro, da mettere sotto tutela con patti concordati con gli attori coinvolti… Forse tutti orizzonti lontani perché il nostro scomparso ci si sia avventurato.

Decido di rivolgermi agli avversari, che a volte, anche più degli amici, colgono mosse e segnali. Riccardo Buscemi, capogruppo di Forza Italia, dall’alto delle sue cinque legislature in Consiglio comunale e con l’aria da saggio che gli conferisce la lunga e folta barba, saprà senz’altro illuminarmi. Ma anche lui dice di averne perso in parte le tracce; sparito un po’ dalle periferie (ha lasciato anche meno che “a mezzo” il progetto delle case popolari di Sant’Ermete), spera addirittura di ritrovarlo in battaglie condivisibili; battaglie che una volta l’avrebbero riattivato, come quella proposta da lui stesso a favore di Fulgenzio Obiang Esono, ingegnere pisano originario della Guinea Equatoriale, detenuto in un carcere di quello stato, perché accusato di aver partecipato a un tentativo di colpo di stato nel 2017 e condannato a 58 anni e 10 mesi di reclusione, mentre in realtà Fulgenzio era a Pisa. Oppositore dichiarato del regime, poi sparito in circostanze misteriose, di lui non si sa più niente da tre anni. Ma anche su questo il PD latita. Forse il PD è sparito perché cerca di trovare delle buone risposte. «È successo anche a noi – mi suggerisce – Quando non dai delle risposte chiare, i cittadini si accorgono che non sei un’alternativa valida». Quindi vista l’attuale situazione gli consiglia di stare all’opposizione per un bel po’ – sorride sornione – Per ritrovare un’identità sia fattuale che progettuale.

Un po’ sulla stessa linea Maurizio Nerini, consigliere comunale di Fratelli d’Italia alla seconda legislatura, che aspetta la ricomparsa del PD in primis su una modalità di opposizione dialogata e non sistematicamente oppositiva. «Paradossalmente è più facile governare quando sei stato per anni all’opposizione a guardare governare gli altri». E poi mi parla delle sue maggiori preoccupazioni, che sono il rapporto con le persone, la necessità di potenziare l’ascolto cercando di essere fisicamente presenti, perché il cittadino ha bisogno del contatto diretto. Mi parla di riappropriazione degli spazi comunali, perché una manutenzione ordinaria ha un costo, la manutenzione straordinaria uno molto più elevato; e mi parla di mobilità dolce e di tram per incrementare la vivibilità del centro urbano… E mi viene da pensare che forse molti degli spazi in cui cercare il PD sono già occupati, e che questo ne complica la ricerca.

Poi, finalmente, incontro un grande ex amico dello scomparso: Paolo Fontanelli. Due legislature da sindaco e due da deputato per il PD. Uscito dal partito, attualmente in Liberi e Uguali. Lui lo vorrebbe trovare là dove si concretizza un’idea di città che cresce in qualità urbana e in qualità della vita; e mi disegna le linee di forza di questo progetto che parte dalla valorizzazione e messa a sistema di ciò che la città offre di più prezioso: un sistema museale che corre sui lungarni e sarebbe altro polo rispetto alla Torre; un itinerario che parte dal Museo delle Navi Antiche passando per quello di Palazzo Reale, congiungendosi con San Matteo e poi, attraversato l’Arno, con Palazzo Lanfranchi e Palazzo Blu. Disegna anche, a partire dalla riqualificazione della linea caserma “Artale”-Santa Chiara, una via pedonale fino a Piazza dei Miracoli. Questo il perno di un cambiamento che implica tutti gli altri: riportare i lungarni al loro ruolo originale di zona di passeggio, togliendo il traffico urbano; definizione della circonvallazione esterna, con situazioni di sosta per arrivare verso il centro, distribuite secondo un modello radiale equilibrato. L’obiettivo dovrebbe essere «passare dal turismo dei due pullman a quello dei due giorni». E poi mi parla del necessario potenziamento delle linee di entrata e di uscita dalla città, dalle strade alle linee ferroviarie veloci verso Firenze… In perfetta simmetria avrei voluto chiedere due dritte anche al nostro primo cittadino. Anche lui conosce benissimo il nostro eclissato, ma ha preferito “mantenere un profilo istituzionale”; che credo voglia dire: “Sono il sindaco di tutti i pisani e non è corretto fare ironia su una forza politica della città”. Ma in fondo l’idea di questa mia ricerca è solo constatare se esistono o esisteranno due diverse idee per la città, che in un sano processo democratico possano contrapporsi e produrre la migliore sintesi possibile per il bene della nostra città. Idee nitide, comunicabili e magari anche un po’ più partecipabili di quanto non sia accaduto in questi ultimi anni.

Che fine ha fatto la stella Michelin?

L’ultima in centro nel 1995. E non è (solo) un problema di cuochi

La notizia di poche settimane fa, l’apertura a Terricciola di un resort con annesso ristorante da parte dello chef stellato Antonino Cannavacciuolo, nasconde un sapore amaro. In quei giorni la stampa locale scriveva di Pisa e di stelle Michelin, ma ciò non stava avvenendo perché un nostro ristorante era emerso tra i migliori. Un grande cuoco dava inizio al suo progetto pisano, un’ottima notizia. Ma ci ha ricordato che le stelle Michelin esistono ancora e che da Pisa sono sparite da decenni. Nel 2022 la guida francese ne ha assegnate 40 alla Toscana e noi non ci siamo, punto. Tristezza profonda, sgomento. Nella nostra storia, di stelle ne abbiamo avute 33 e per due volte, alla fine dei ‘70 e all’inizio dei ‘90, ci sono stati due ristoranti stellati in città. Negli anni ‘80 eravamo protagonisti della cucina italiana con Sergio Lorenzi e il suo “Sergio” sul Lungarno Pacinotti, 18 stelle Michelin consecutive dal 1978 al 1995, anno in cui queste abbandonano definitivamente il centro cittadino. Dà una piacevole sensazione usare il plurale in questo contesto, dire “noi” eravamo un riferimento della cucina nazionale, lo possiamo affermare con orgoglio. Allo stesso modo dovremmo constatare che siamo “noi”, tutti come comunità, a uscirne ammaccati quando la stella manca, e da così tanto tempo, dal centro di Pisa. E non per la stella in sé, ma per la stella come sintomo di un contesto di creatività e menti ingegnose. Quel contesto che da qualche anno pare soffra a emergere. I numeri, gloriosi del passato e assenti nel presente, mostrano due ere ancora più distanti se contestualizzati. Non che diventare stellati oggi sia facile, ma gli anni ‘80 erano un altro mondo, senza Internet, senza chef celebrità e con molto meno know-how in Italia su cosa volesse dire fare alta ristorazione. I cuochi pisani di allora erano pionieri, ma di un concetto assai confuso per il pubblico italiano, una cosa considerata per ricchi e vista con scetticismo, specialmente a Pisa, città popolare e studentesca. Due dati aiutano a calibrare ieri con oggi: solo nel 1986, mentre Lorenzi festeggia la sua nona stella Michelin, arrivano le prime “3 Stelle” italiane. Sono passati 30 anni da quando la guida Michelin ha esteso la copertura delle sue revisioni all’Italia. Se le aggiudica Gualtiero Marchesi, che diventerà un’istituzione. Oggi i tristellati in Italia sono 11. Secondo dato: lo stesso termine “stellato”, se riferito alla ristorazione, non esisteva nella lingua italiana. Il vocabolario Treccani lo ha aggiunto tra i neologismi soltanto nel 2008.

Alla macro analisi si sommano gli effetti micro, quelli locali, specifici del territorio. Per studiarne l’andamento, la Confesercenti di Pisa ha ideato oltre quindici anni fa l’Osservatorio sul turismo enogastronomico. Compito dei gruppi di lavoro che lo compongono è realizzare indagini a campione per comprendere le abitudini degli utenti. Gli aspetti analizzati dalla Commissione per la valutazione dei ristoranti di Pisa variano ogni anno. Due dei risultati più interessanti si trovano nel report del 2015. Il primo: quando un livornese o un lucchese decide di venire a cena a Pisa lo fa, oltre che per ovvie ragioni di vicinanza, spinto dalla bellezza della città o per motivi di lavoro nel 25% dei casi e solo nel 4% per i ristoranti. Pisa peraltro si colloca quarta dopo Livorno, Lucca e Viareggio tra le destinazioni scelte per cena tra gli abitanti della zona. Il secondo numero è ancora più inquietante: se si tratta di cenare fuori il 90% dei livornesi rimane a Livorno, il 72.5% dei lucchesi resta a Lucca e solo il 50.4% dei pisani sceglie Pisa. Cioè un pisano su due lascia Pisa se esce per cena. Alessandro Fenu è docente all’Istituto alberghiero “Matteotti” di Pisa, formatore di personale negli hotel e per anni è stato membro della commissione che realizzava questi report: «I dati parlano chiaro: le persone tornano nei ristoranti nel 51% dei casi per come sono stati accolti, non per come hanno mangiato. Quindi Pisa non ha un problema di cucine, ha un problema di accoglienza, di sala». Per Fenu questo è un fatto specifico della città di Pisa che non si riscontra nelle province vicine, è quella sensazione che i pisani considerino tendente al ruffiano chi fa solo il gentile. L’insegnante Fenu non è indulgente con la sua stessa categoria quando dalla sala passiamo ai fornelli: «Sulla cucina la formazione ha la sua grossa fetta di responsabilità. Non siamo più credibili verso gli studenti, le ore di laboratorio sono state decimate e diamo incarichi a docenti a loro volta non formati, con esperienze minime, spesso in realtà mediocri. Nella nostra scuola abbiamo ventunenni neodiplomati che insegnano materie professionali. Una volta in un laboratorio ho visto con i miei occhi un giovane docente fermare la lezione perché non sapeva fare la crema pasticcera». 

L’ultima brigata di successo sul territorio pisano la guidava il garfagnino Luca Landi, chef stellato di “Lunasia”, ristorante dal cuoco interamente concepito. Lunasia è oggi a Viareggio, ospite dell’Hotel Plaza e de Russie, ma è nato a Tirrenia e rimasto per qualche anno nelle strutture del Green park resort. Quando “Lunasia” si guadagna la prima stella Michelin nel 2012, dopo che per due decenni questa era mancata dalla città, il sindaco di Pisa Filippeschi chiama Landi per congratularsi con 5 mesi di ritardo. Discutiamo proprio del rapporto con il territorio quando incontriamo lo chef e i suoi sentimenti sono contrastanti: «Alcuni dei prodotti che amo di più sono pisani, specialmente del Parco. Li uso nei miei piatti, ma non senza difficoltà. Per due chili di ricotta di pecora, che è strepitosa, a volte chiamo il produttore dieci volte. C’è Donatella Baldi a San Rossore che produce miele su una spiaggia, una cosa unica, ma glielo devo vendere io direttamente al ristorante perché trovarlo è impossibile. E i pinoli del Parco, i migliori, sfido chiunque a trovarli in meno di cinque giorni». È deludente. Non tanto per la visibilità che un grande ristorante offre a un piccolo produttore, ma perché l’essenza della cucina è trovare nuove vie per gli ingredienti, anche quelli che riteniamo intoccabili. «Io con il mucco pisano ci faccio una carne fermentata (servita sorprendentemente tra la piccola pasticceria, ndr) che secondo me lo valorizza molto più di una griglia. In Giappone ho lavorato nel ristorante di Seiji Yamamoto (un gigante, il più importante innovatore della cucina giapponese, ndr) che ha preso un ingrediente tradizionale come il katsuobushi, che è pesce fermentato essiccato, e ne ha studiato una versione affumicata con il produttore. Queste interazioni sono vitali. Io adesso, per un lavoro che sto mettendo a punto, ho bisogno di una ricotta più secca, e mi vengono i brividi se penso di discuterne con il produttore». E comunque, prima, bisogna che il produttore risponda al telefono.

Mendicanti di creatività

Il Comune di Pisa pagherà 500 euro il logo che dovrebbe rilanciare i musei cittadini

Un’applicazione del logo vincitore del bando per i Musei Nazionali di Genova. Autori: Dario Pianesi, Alessandro Prepi & Marco Fornasier

27 marzo ore 13:02, sulla chat di Redazione viene condiviso il link a un comunicato stampa che titola: “Cultura: pubblicato il bando per ideare il logo della Rete museale cittadina”. Tra grafici e illustratori si accende l’interesse: ci piace raccontare Pisa con le immagini, l’occasione è imperdibile. Aperto il link e letto il sottotitolo dell’articolo, però, arriva lo sconforto: “Al vincitore un premio di 500 euro. Per partecipare c’è tempo fino alle ore 11 dell’11 aprile”. Nella successiva riunione di Redazione alzo la mano e chiedo questo spazio ai colleghi giornalisti, in via straordinaria. Perché da otto anni sono un grafico di questa testata e di mestiere non scrivo. Ma ci sono cose da dire.

Il bando: sedici giorni per sviluppare il logo di un progetto di cui si discute da più di 10 anni. Perché tanti buoni propositi si stanno risolvendo in un contest degno di un incarico da sagra di paese? Leggendo il comunicato si scopre che la rete museale cittadina, o come è stata ribattezzata Rete PPM – Pisa Percorsi Museali, èun protocollo d’intesa siglato lo scorso ottobre con il quale è stata avviata una collaborazione tra i soggetti che a Pisa si occupano di beni culturali e di spazi espositivi. I soggetti coinvolti nella Rete PPM sono 18. Solo per citarne alcuni si va da Palazzo Blu al San Matteo, passando per la Chiesa di Santa Maria della Spina e il Museo di Anatomia Patologica. Ci sono tutti gli enti pubblici e le fondazioni che a Pisa gestiscono spazi espositivi.

I soggetti coinvolti nella Rete PPM sono 18. Solo per citarne alcuni si va da Palazzo Blu al San Matteo, passando per la Chiesa di Santa Maria della Spina e il Museo di Anatomia Patologica. Ci sono tutti gli enti pubblici e le fondazioni che a Pisa gestiscono spazi espositivi.

È evidente, anche per l’eterogeneità dei soggetti coinvolti, che progettare questo logo richieda uno sforzo di sintesi molto complesso e di conseguenza un’elevata professionalità. Probabilmente il premio del concorso copre giusto i costi di una seria ricerca preliminare, indispensabile per creare un lavoro originale e all’altezza dell’operazione. Operazione fondamentale per una città con una forte vocazione turistica che però si presenta con musei dai risultati molto scadenti in termini di numero di visite.

Nel bando del Comune mancano indicazioni precise che possano orientare i progettisti. Vi si legge: “[il logo] Deve essere in grado di rafforzare la visibilità della Rete Museale valorizzandone le caratteristiche”. Sì, ma quali? Ricercando maggiori informazioni su PPM – Pisa Percorsi Museali scopriamo che l’unica risorsa su cui dovrebbe basarsi chi si cimenta nel contest sono comunicati stampa e dichiarazioni di intenti.

Avere un’identità visiva efficace è un valore riconosciuto, per questo la si costruisce ben oltre il disegno del logo, con un insieme di elementi che concorrono alla riconoscibilità del brand, alla sua personalità. La brand identity si può declinare in una moltitudine di supporti visivi: dal manifesto della mostra al biglietto d’ingresso che ci ritroviamo il giorno dopo in tasca, all’ombrello che abbiamo acquistato nel bookshop perché colti alla sprovvista da un temporale. Se pensiamo all’identità visiva come all’abito con cui un’organizzazione si presenta ai suoi utenti, a Pisa sembra si sia scelto di indossare la prima cosa che si trova aprendo il cassetto.

Tutt’altra ambizione ha avuto la città di Genova nel proporre il concorso per i musei nazionali della città. In questo caso i promotori si sono avvalsi della consulenza dell’Aiap, l’Associazione per il design della comunicazione visiva, che da anni offre supporto alle amministrazioni pubbliche per la stesura dei bandi di gara affinché siano redatti rispettando le linee guida europee.

A Genova, per un bando simile, al vincitore sono stati destinati 14mila euro e a tutti i candidati selezionati è stato riconosciuto un rimborso spese di 1.000 euro

A Genova il bando è stato pubblicato il 13 ottobre 2021 e ha riguardato l’unione di soli due musei nazionali: il Museo di Palazzo Reale e le Gallerie Nazionali di Palazzo Spinola, una situazione ben più semplice rispetto ai 18 musei pisani.

Al vincitore sono stati destinati 14mila euro. Il concorso è stato diviso in due fasi: nella prima sono stati selezionati 5 team tra tutte le candidature ricevute. I partecipanti hanno dovuto dimostrare di avere una comprovata esperienza nel settore e a giudicare i lavori è stata una commissione composta da professionisti della comunicazione visiva. Non era scontato: in molti concorsi analoghi a giudicare ci sono solo i committenti. A tutti i candidati selezionati è stato riconosciuto un rimborso spese di 1.000 euro per proseguire nella seconda fase: la sottomissione delle proposte progettuali. Nel bando genovese è stato elencato il numero di elaborati da consegnare, indicando con precisione il contenuto di ciascuna tavola grafica e i criteri di valutazione sono stati molto dettagliati. I progettisti selezionati hanno quindi partecipato a una riunione per avere informazioni più dettagliate da parte della committenza e hanno potuto dipanare eventuali dubbi prima di iniziare i lavori. Il concorso si è concluso il 4 febbraio 2022, a più di tre mesi dalla pubblicazione del bando.

A Pisa, tra la pubblicazione del bando e la scadenza sono intercorsi 22 giorni. Non è stata fornita alcuna informazione sulla commissione giudicatrice, nemmeno a seguito di nostra formale richiesta. Il premio offerto è 28 volte più contenuto, 500 euro. Il bando è stato aperto a tutta la popolazione maggiorenne, senza individuare un modo per intercettare i professionisti del settore. Forse chi ha indetto il concorso si illude che si possa sostituire l’estro artistico alla progettazione, l’immediatezza del segno spontaneo alla riflessione. E la sensazione è che, non volendo affrontare una spesa congrua per ripagare il lavoro, si sia tentato di accaparrarsi creatività a buon mercato sperando nei grandi numeri, con un bando aperto a chiunque senza selezione preliminare.

La sensazione è che, non volendo affrontare una spesa congrua per ripagare il lavoro, si sia tentato di accaparrarsi creatività a buon mercato sperando nei grandi numeri, con un bando aperto a chiunque senza selezione preliminare.

Se i 18 musei pisani avessero unito le forze per finanziare questo concorso, avrebbero dovuto sborsare la cifra di 27,7€ a museo. Stiamo parlando del costo di meno di 3 biglietti ridotti per la visita alla mostra di Keith Haring appena conclusa a Palazzo Blu.

Nel momento in cui questo testo viene scritto siamo oltre la scadenza del bando. Teoricamente in una delle buste consegnate potrebbe esserci il nuovo capolavoro della grafica degli anni Venti. Questo tuttavia non giustificherebbe la scarsa ambizione che la città ha dimostrato nei confronti di uno dei temi da anni proposto come la svolta per il rilancio del patrimonio culturale cittadino “oltre la Torre”. Disattenzione che diventa disastro se si pensa che nel consorzio è presente anche il Museo della Grafica.


Editoriale pubblicato sul numero 2 – Anno 9

Comunicato stampa del Comune – Pisa percorsi museali

Comunicato stampa che annuncia il concorso: bando per il logo di Pisa Percorsi Museali

Pagina ufficiale del Comune di Pisa con il Bando oggetto dell’articolo

Concorso musei nazionali di Genova – il vincitore

Le linee guida per i concorsi dell’AIAP, l’associazione italiana design della comunicazione visiva

International council of design guide lines

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Di chi sono i muri di Pisa?

È sempre più frequente di questi tempi imbattersi, su giornali e social, in foto di assessori che, armati di idropulitori, posano fieri davanti a muri ridipinti di fresco. Attestano la vittoria contro le scritte sui muri cittadini e trionfalmente affermano di aver restituito decoro alla città contrastandone il degrado. È un’affermazione bipartisan che rimbalza di comune in comune e nella nostra città ingloba anche l’Ateneo, che nella persona di Marco Gesi, prorettore ai rapporti con il territorio, si è schierato a fianco dell’Amministrazione, impegnandosi a pulire i muri dei propri palazzi in nome di «un’azione sinergica che vuole mantenere e restituire una città più civile, più bella, più pulita»; è quindi a fianco dell’assessore all’ambiente Filippo Bedini che ne ha fatto una vera e propria crociata e dell’impresa ama snocciolare cifre afferenti alle risorse investite e ai metri quadri di scritte rimosse. Lo sforzo economico stupisce (nel 2020 un ammontare complessivo di 155.480 euro), come l’uso reiterato dell’aggettivo sostantivato “decoro” usato per etichettare come indiscutibilmente positiva la pratica di cui stiamo parlando. Ma “Decoroso” ha a che fare con il Bello e sappiamo quanto nessun termine sia meno oggettivo dell’aggettivo “bello”. Se nessuno contesta la pulitura di scritte su monumenti di alto valore artistico o di scritte becere o sessiste, per molti muri e altre scritte, per un altro amore per Pisa, per un’altra sua storia, si potrebbero forse fare ragionamenti un pochino più complessi, che inglobano altri punti di vista, foss’altro per amore di dibattito. Perché a “Imbiancato è bello” un’altra parte della città potrebbe obbiettare “Muro pulito = popolo muto”.

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A Pisa l’ossessione per le auto soffoca la ciclabilità

L’incrocio tra la ciclabile di via Garibaldi e il tunnel di via degli Artigiani. Foto di Michela Biagini

Renate Altmeyer è stata uccisa a Pisa lo scorso 11 ottobre da un automobilista. Circolava con la patente sospesa per ragioni psicofisiche e ha travolto la donna sull’attraversamento ciclopedonale di via Porta a Mare. Lei proveniva in bicicletta da Marina di Pisa, dove stava villeggiando in camper con il marito.

Era tedesca di Haltern am See, una cittadina della Renania con un terzo degli abitanti di Pisa e il triplo delle piste ciclabili (circa 170 km, fonte radfahren-haltern.de). Ai soccorritori, riportano le cronache, il marito avrebbe confidato che lassù Renate si spostava sempre in bici. Mortifica, così, riconoscere che stiamo condannando i nostri ospiti a una mobilità inadeguata ai loro standard, esponendoli a dei rischi (Pisa riceve dal Nord Europa la metà dei suoi turisti, in testa Germania e Paesi Bassi).

La ciclabilità pisana ha un carattere subdolo. Alcuni indicatori svelano delle virtù, benché siano riferiti al modesto panorama italiano. Rappresentiamo l’ottavo comune capoluogo di provincia per numero di abbonati al bike sharing (rapporto Focus 2R 2021 di Legambiente e Confindustria). Il venticinquesimo per metri quadri pro capite di piste ciclabili (Ecosistema Urbano 2021 di Legambiente). E beneficiamo già dal 2008 della “Consulta della bicicletta”, che aggrega svariati soggetti legati alla mobilità
(Comune, Legambiente, Pisamo, Polizia Municipale, Fiab e altri) per emendare i progetti preliminari delle infrastrutture urbane a favore della ciclabilità.

Ulteriori riscontri palesano invece la marginalità della bici, ritenuta un optional, non un’alternativa all’invasione degli autoveicoli, capace di ispirare un’evoluzione della città. La statistica più eloquente compare nel rilevamento del transito di ciclisti sui lungarni, effettuato nel 2019 da Fiab, Ufficio Bici (Pisamo) e Legambiente. Se sul Ponte di Mezzo le biciclette registrano il 22,7% dei passaggi rispetto agli altri mezzi di trasporto, sul Ponte della Vittoria precipitano al 6,8%, calando persino al 4,6% sul Ponte Solferino. È la spietata fotografia della ciclabilità pisana: massiva in Ztl, irrilevante in periferia, dove spesso i percorsi sono insicuri. A tale riguardo il “Piano urbano della mobilità sostenibile” (Pums), redatto nel 2020 dal Comune di Pisa, racchiude un dato emblematico. Per raggiungere Ospedaletto e Montacchiello dalla Stazione Centrale, un ciclista si imbatte in un tracciato “promiscuo” al 91%, ossia condiviso con gli automezzi. In parole povere le migliaia di lavoratori dell’area industriale non dispongono di collegamenti ciclabili verso il principale snodo del trasporto pubblico locale, malgrado la distanza di appena cinque chilometri. Eppure a Pisa la mobilità dolce è da vent’anni nell’agenda delle amministrazioni comunali: perché resistono simili lacune? 

29 giugno 2021, seduta consiliare. Francesco Auletta (gruppo “Diritti in Comune”) interpella Massimo Dringoli, assessore all’Urbanistica, sull’illecita assenza della pista ciclabile lungo la rotatoria tra il ponte del Cep e viale D’Annunzio, terminata a maggio. Auletta allude alla legge 366 del 1998, che impone di affiancare dei percorsi ciclabili alle strade di nuova costruzione o ai tratti sottoposti a manutenzione straordinaria. Dringoli obietta che l’ampliamento del cantiere per l’aggiunta della pista avrebbe implicato ulteriori espropriazioni, ritardando così un’opera essenziale per mitigare gli ingorghi estivi. Morale: per agevolare le automobili si calpesta la ciclabilità, persino a scapito delle regole. Infine l’assessore si discolpa rammentando le numerose rotatorie di Pisa posteriori al 1998 e difformi dalla legge 366 (ossia, “mal comune mezzo gaudio”). Una difesa che si trasforma in un’accusa inconsapevole a una generazione di dirigenti: da vent’anni se ne fregano tutti.

A Pisa sopravvive un’anacronistica cultura “autocentrica”, che talvolta compiace le esigenze dei ciclisti, ma non rinuncia alla supremazia dell’automobile

A Pisa sopravvive, perciò, una trasversale e anacronistica cultura autocentrica, che talvolta compiace le esigenze dei ciclisti, ma non rinuncia alla supremazia dell’automobile. Non stupisce quindi la crescita in città del numero di macchine circolanti ogni cento abitanti: 58 nel 2015, 61 nel 2019 e 63 nel 2020, il doppio rispetto a Londra e Parigi (dati Aci). Un’involuzione assecondata dal Comune, che annuncia nel Pums la realizzazione di circa 2.700 nuovi parcheggi nel centro urbano, sacrificando peraltro le aree verdi di via delle Trincere e del bastione del Barbagianni. Il tutto mentre Pisa, all’insaputa dei più, svetta nella peggiore delle classifiche: siamo la quinta città in Italia per numero di vittime della strada (dati Aci-Istat 2020).

Pisa svetta nella peggiore delle classifiche: siamo la quinta città in Italia per numero di vittime della strada

È evidente così che non bastano delle isolate iniziative per la ciclabilità, seppur significative (il Pums prevede addirittura l’estensione della rete ciclabile dagli attuali 52 chilometri a 125). Come sostiene Gianni Stefanati, storico responsabile dell’Ufficio Bici di Ferrara, per affermare la mobilità dolce bisogna disincentivare l’ossessione dell’automobile. Fiab Pisa propone di trasformare l’intera città in zona 30, mantenendo il limite di 50 km/h nelle arterie principali. Insieme l’associazione suggerisce di restringere le carreggiate per obbligare le auto a rispettare il vincolo, riconvertendo gli spazi a favore di pedoni e ciclisti. Accetteremo mai una simile rivoluzione?

A volte capita di trovare delle immagini di piazza dei Cavalieri degli anni Settanta. Osservando l’enormità di auto parcheggiate ci si chiede: com’è stato possibile? La risposta è che i cittadini del tempo non erano culturalmente adeguati per criticare quel modello. Chissà se i pisani del futuro, di fronte a una foto dei lungarni intasati datata 2021, penseranno di noi la stessa cosa.


Editoriale pubblicato sul numero 5 – Anno 8

Muoiono i tesori di Pisa

Al museo di San Matteo è custodita una tavola in cui Sant’Orsola, prima patrona di Pisa, è intenta a salvare la città da un’alluvione; la città, impersonificata da una giovinetta bionda, non appare troppo sconvolta, forse per l’estrema fiducia posta nella celeste apparizione o per la bellissima veste decorata di tante aquile imperiali a indicare la sua scelta ghibellina. È un dipinto particolare che rivela importanti problematiche di conservazione; ma la buona notizia, di questi giorni, è che il suo restauro è cosa certa ed imminente. Ad assicurarcene è stato il neo direttore Pier Luigi Nieri, che da marzo è subentrato a Fabrizio Vallelonga, ora direttore del Museo Etrusco di Chiusi, restato al San Matteo solo un annetto e poco più.


Buono sapere che qualcuno salverà l’opera, ma chi salverà il museo dall’ignoranza di pisani e turisti? Dalla sua nascita (1949) ad oggi non c’è mai stata proporzione tra la bellezza delle opere che il museo custodisce e l’afflusso di visitatori; lo dicono gli esperti (in primis la prof.ssa Gioli, docente di Museologia del nostro ateneo intervistata sull’argomento), lo dicono le cifre. Gli ingressi nel 1996 sono stati 10.489, nel 2019 10.293 (anno pre-covid e quindi non penalizzato da questo). Non si tratta certo di pretendere i 4.391.895 visitatori degli Uffizi o di trovare dei colpevoli, quanto semmai capire i motivi di tanto insuccesso e se si può fare qualcosa. I pisani hanno un tesoro che non riescono a sfruttare, né per la loro ricreazione né per la loro formazione identitaria. Non sanno che c’è, non sanno cosa sognare di farsene, non sanno cosa pretendere dagli amministratori o da se stessi.

Chi salverà il museo dall’ignoranza di pisani e turisti? Dalla sua nascita ad oggi non c’è mai stata proporzione tra la bellezza delle sue opere e l’afflusso di visitatori


Un museo potrebbe essere un luogo che si abita, non necessariamente un posto in cui si va per vedere ogni volta tutta la collezione; potrebbe essere un luogo d’incontro e di dialogo, con gli esperti e con gli altri sulle opere e davanti alle opere. Un posto permeabile e sociale, dove si possono organizzare anche eventi culturali “altri”; nel caso specifico, un luogo dove si completa ed arricchisce la nostra identità culturale di cittadini di un’importante città medioevale. Il Museo di San Matteo ha una posizione invidiabile, un bellissimo chiostro, un’ampia sala molto grande per possibili eventi (che saggiamente Nieri si propone di predisporre al meglio quanto prima). Ma ha uno staff tecnico scientifico limitato, poco personale per garantire le aperture ordinarie (figuriamoci quelle straordinarie), non ha abbastanza stanze per esporre il proprio patrimonio (che in buona parte resta nei magazzini), è condannato ad essere conosciuto in rete solo grazie al sito della Direzione regionale musei della Toscana, che è un imbarazzante oggetto di modernariato, nemmeno leggibile col cellulare, mentre non sarebbe strano avesse addirittura un social media manager (più che un volenteroso direttore che quando può aggiorna la pagina Istagram); non ha un book shop, non ha un catalogo, non ha una sezione didattica permanente, non ha un impianto di climatizzazione, non ha un free wi-fi al suo interno, non ha un bar o un luogo dove è comodo stare ed incontrarsi.


È ovvio che un museo non adeguatamente comunicato non avrà incremento di visitatori, né maggiori ricavi; ma anche qualora l’avesse, i soldi andrebbero comunque alla Tesoreria Generale dello Stato; è il Mibact che poi li restituisce alla Direzione generale Musei, che a sua volta li riassegna alle direzioni regionali per il funzionamento base: bollette, manutenzione… solo la sussistenza insomma. Il Museo potrebbe forse decidere di chiedere la gestione autonoma, come ottenuto da poco dalla Pinacoteca di Siena; ma non è assolutamente chiaro né chi la debba chiedere, né come la si ottenga; è una scelta eminentemente politica, per ammissione dello stesso Dott. Casciu, direttore dei Musei Nazionali Toscani. È lo stesso Casciu a definire di fatto irrimediabile questo circolo vizioso che attanaglia il nostro e presumibilmente anche altri musei sotto la sua giurisdizione. La storia è sempre la stessa: i soldi sono pochi, senza un piano veramente lungimirante di investimento sulla comunicazione e gestione del nostro invidiabilissimo patrimonio artistico e la riforma Franceschini che pure elencando con nitidezza cosa ci dovrebbe essere per poter ben fare, di fatto non fornisce ai musei quei mezzi necessari che enuncia.

Da cittadini dovremmo aumentare la nostra consapevolezza sul San Matteo e su altri tesori pisani sottoutilizzati. Se li avessimo ben presenti, potremmo andare oltre l’adagio “bella la mi’ Pisa!”, sospirando al Duomo o intasando i social con le foto dei tramonti dal ponte della Fortezza


La palla torna quindi in mano a noi cittadini; dovremmo forse strepitare di più? Invocare situazioni nuove? Almeno dibatterne? Senz’altro prima di tutto sensibilizzarsi a questo e altri tesori presenti in città, sottoutilizzati oppure chiusi, sprangati, murati. Se li avessimo ben presenti, potremmo almeno andare oltre l’adagio “bella la mi’ Pisa!” sospirando al Duomo o intasando i social con le foto dei tramonti dal ponte della Fortezza.


Nell’angolo in alto a sinistra della tavola in cui Pisa è salvata dall’alluvione, anche Dio stende il braccio a coadiuvare lo sforzo della santa; senza aspettarci tanto, forse potremmo cercare di fare qualcosa: intanto chiedendo contezza dei tanti, troppi portoni chiusi in città, che ci fanno dimenticare cosa custodiscono; con buona pace di chi dovrebbe amministrare la cosa pubblica e invece perché incapace a trovare soluzioni a problematiche complesse che necessitano di coraggio e capacità gestionale, conta sull’oblio del cittadino. Per quanto ci riguarda è già avviata, per essere in edicola all’inizio del prossimo anno, un’indagine accurata sul lungo elenco dei tesori dormienti e occultati della nostra città, affinché ritorni luce e potenzialità sui tanti beni più grandi e più piccoli, senz’altro da non dimenticare.


Editoriale pubblicato sul numero 4 – Anno 8