Archivio onirico pisano

Mai il giornalismo è stato così rutinario. Tutto evoca il Covid-19, dalle prime pagine agli oroscopi. A un subbuglio epocale è corrisposto un logorante appiattimento mediatico. Un paradosso “al quadrato”: il collasso dell’informazione su un’unica vicenda, sebbene eclatante, via via conduce all’impassibilità del pubblico. Un fenomeno perciò ovvio (tale è ormai il virus) che preclude inoltre l’azione umana e quindi l’origine delle storie. Nell’attuale monotonia, dove si celano allora le sorprese (ossia le notizie)?
All’inerzia corporea istigata dal Covid-19, si contrappone forse un fermento dell’immaginazione. In fondo ciascuno adesso è intento a rimodulare la propria identità proiettandola nell’incerto mondo post-pandemico, tra dilemmi pratici (“crolleranno gli interessi sui mutui?”) ed esistenziali (“sarò una persona migliore?”). Se dunque l’astratto è divenuto più stupefacente (cioè “notiziabile”, ribadisco) del reale, un giornale dovrebbe occuparsene, delineando magari una “cronaca dell’invisibile”.
Un’ambizione che in Seconda Cronaca spingiamo all’estremo, chiedendovi di raccontarci i vostri sogni (incubi inclusi, come da foto). È infatti accertato da psicologi, psichiatri e neurologi che l’emergenza sanitaria stia invigorendo l’attività onirica. E condividere la propria significa iniettare nel vissuto quelle sane fantasie che la pandemia ci sta inibendo: fatelo scrivendo a redazione@secondacronaca.it. Lunghezza a piacimento: non scorceremo né correggeremo i testi. Firmateli, almeno con uno pseudonimo.

Di seguito riportiamo i sogni arrivati finora in redazione.


28 maggio 2020

Un gelato, per carità. Solo un gelato di Margherita Guerri

La città che non conosco, ma in cui nel sogno vivo da sempre, è ancora semi-deserta. Nessun negozio aperto, cammino adolescente tra le saracinesche chiuse insieme ad un gruppo di miei amici, con la mascherina. Loro parlano, io mi guardo intorno stranita e felice di questa nuova normalità. Ma ecco che, al lato opposto della tipica piazzetta con fontana, mi appare l’unico negozio aperto: una gelateria. È una gelateria per Cani e Gatti. Penso che sia strano, che “accidenti ma dove ci ha portato il capitalismo?”, ma che alla fine è meglio di niente. Entro sicura e vado al bancone, ma nessuno si rivolge a me, forse perché non sono un cane e neppure un gatto, penso. Riesco ad attirare l’attenzione di un commesso ed ordino un cono riempito di panna, con sopra del gelato alla Nutella e sopra altra panna. Ripeto e mimo mostrando con la mano l’ordine degli strati, visto lo sguardo vacuo del gelataio: panna-Nutella-panna. Nei suoi occhi, niente. E pensare che ho anche chiesto una cosa semplice. Alla fine il gelataio si volta verso il retro del negozio, e urla la mia ordinazione a qualcuno che non vedo. Aspetto. 

Il gelato arriva, dopo quelli che sembrano secoli, ed è appoggiato accanto alla cassa, in uno di quei porta-coni di metallo che hanno le gelaterie. Devo pagare, ma non accettano soldi normali. Con me ho sei spicchi di aglio e dei rametti di fiori di pino. La signora della cassa si mette a contare il valore della merce che le ho portato, scocciata. Aglio: 10 centesimi ogni spicchio, rametti 20 centesimi… È un po’ come quando i gettoni valevano 200 lire, penso, mentre vedo il gelato lentamente ed inesorabilmente sciogliersi sul bancone e la cassiera conta imperterrita e concentrata. Quando finalmente alza lo sguardo, da dietro gli occhiali da lettura con catenella rossa che ha appoggiato sul naso: «Signorina, non arriva alla cifra così…».

Mi rimetto a cercare nella mia borsa ma non trovo altro, la cassiera è sempre più scocciata ed io sempre più arrabbiata perché il gelato si sta sciogliendo; inizio a contrattare sul valore dell’aglio. «Non è possibile, ogni spicchio vale almeno venti centesimi, e poi i rametti con i fiori… ».

La contrattazione va avanti, i toni si sono ormai scaldati, il gelato anche ed ormai cola sul bancone tra la noncuranza di tutti i presenti, gelataio zombie compreso. Me ne esco senza cono, sono triste e con la voglia di gelato. Ritrovo i miei amici che stanno facendo i ganzi, come in una serie anni ‘80, intorno alla fontana. Penso che sembrano proprio “I ragazzi del muretto” e che, alla fine, mi sa che mica li conosco. 

Mi sveglio così. Ed ho ancora la voglia di quel gelato.


27 maggio 2020

Da Minosse a Christian De Sica di Sara Parton

Il sogno più raccontabile dei numerosi degli ultimi due mesi lo feci all’inizio, e fu un po’ angosciante. Nuotavo per un tratto di mare fino a raggiungere una parete rocciosa dove mi arrampicavo. In cima trovavo una reception dove c’era il Minosse dantesco che mi ammetteva nell’Aldilà. Nonostante l’angoscia, passati di là non era male, era un villaggio rurale africano. Mah.

Più allegra è l’esperienza di Agata, che ha risposto al mio appello su Instagram e ha detto che potevo condividere con voi questo capolavoro onirico. Vi scrivo il messaggio pari pari come me l’ha scritto lei: “Ho sognato che Christian de Sica voleva uccidermi e che il mio esame di chimica organica consisteva nel determinare tutte le reazioni che avvengono quando si fa il ragù”.


15 maggio 2020

Sullo scooter con Berlusconi di Sandro Noto

Ho sognato che sfrecciavo su uno scooter in coppia con Silvio Berlusconi. Guidavo io e non portavamo il casco. Il mezzo era un Piaggio NRG bordeaux (detto “Energy”), modello di tendenza fra i teenager pisani di metà anni Novanta (contemporaneo perciò alla “discesa in campo” del Cavaliere). Un dettaglio che riconduce la visione alla mia adolescenza, benché avessi l’aspetto odierno. Berlusconi invece era ringiovanito e rimpicciolito; così l’iconico doppiopetto gli cadeva largo esasperando lo svolazzo controvento. Fuggivamo come scippatori da un pericolo che ho dimenticato, insofferenti l’uno all’altro però complici. Percorrevamo ignote strade gremite di bambini che giocavano in calzoni corti.

QUANDO PISA ERA GOTHAM CITY

Il “Poeta”, “Giannilungo”, “Morandi”, la “Principessa”. Bizzarri personaggi che un tempo circolavano a Pisa, regalando spiazzamento e una certa dose di poesia. In questo articolo del 2014, uscito su un numero di Seconda Cronaca intitolato “I mestieri della notte”, Franco Farina li ricorda accostandoli a dei supereroi

di Franco Farina, illustrazione di Valerio Cioni

A un tratto in redazione, discutendo dei mestieri della notte, ci chiediamo se un supereroe pisano sia mai esistito, e con che poteri, nemici e missioni da eseguire. Formuliamo ipotesi, ironizziamo, ridiamo. All’improvviso mi torna in mente una galleria di personaggi. Gente di solito inserita nella casella “pazzi di paese”, gente che ora non c’è più a regalare spiazzamento e una certa dose di poesia. Gente che ogni giorno indossava una maschera che gli permetteva di stare al mondo, di giocare un ruolo. Sono loro i miei supereroi.

Per me prima di tutti c’era quello chiamato il Poeta. In assoluto il più notturno. Il Poeta era alto, vecchio e dinoccolato. Incedeva con un ritmo tutto suo, che si poteva dire lento, ma di falcata ampia. Portava il bastone, su cui si appoggiava forse un po’ per vezzo, e un fiocco nero al collo che gli valeva l’altro appellativo: l’Anarchico. Me lo ricordo a notte fonda tra i portici di Borgo o di piazza delle Vettovaglie. Ci stava così bene che sembrava pagato dall’ente del turismo. Poi lo ricordo quando saliva lento pede la maledetta scala a chiocciola del loggione del Teatro Verdi, dopo aver superato la maschera che mai si permetteva di chiedergli il biglietto. All’epoca i posti del loggione non erano numerati, così chi prima arrivava meglio alloggiava. La corsa s’interrompeva sempre alle spalle del Poeta, che imponeva i suoi ritmi. Anche il gridio si faceva sommesso. Poi giunto al più ampio spazio del cambio d’ordine, si faceva da parte consentendo alla folla il riprendere della corsa. Non ricordo se avesse un cilindro, ma l’avrebbe portato benissimo.

Poi c’era la Principessa. La Principessa è difficile da dire. Era silenziosa. Aveva come una specie di luce attorno. C’era all’improvviso, non l’avevi mai sentita arrivare. Una volta comparve dietro di noi in un palchetto da cinque del Teatro Verdi. Avverto una presenza dietro, mi giro e me la trovo lì, a metà di uno spettacolo di Giorgio Gaber. Avevo sedici anni. Lei sorride e dice sottovoce: «Non voglio dare noia, sto un po’ qui a vedere e poi vado via». Ma io ho le bimbe in palco con me a anche quella che insomma, sì, mi piaceva parecchio, e sono l’unico uomo presente. Mi guardano, ci guardiamo e faccio “sì, va bene” col capo, annuendo silenzioso e ostentando sicurezza. Ma per tutto il resto dello spettacolo, me ne sto uno sguardo al palco e uno mezzo indietro, a sorvegliare. Quando agli applausi mi decido a voltarmi del tutto, la Principessa se ne era andata. Chissà da quanto. La Principessa aveva la sua panchina in piazza Vittorio Emanuele II. Era la panchina di destra guardando la schiena della statua. Se per distrazione dei pisani si erano seduti sulla “sua” panchina e lei si presentava, veloci le lasciavano il posto che lei reclamava solo con un sorriso.

Poi c’era Morandi, che girava con la chitarra e cantava le canzoni di Morandi. La chitarra l’abbracciava in un abbraccio contorto, in alto, come si fa con un violino, e strimpellava con forza le corde, a strappargli il suono.

E c’era anche lo Sceriffo, ma a dir la verità lui era un eroe diurno. Mi affrontava con una smorfia sul viso e con le Colt in vita, dicendomi: «Ehi tu, dammi una cigaretta!». Io dicevo di no (all’epoca nemmeno fumavo). Allora lui mi ripeteva sempre più grintoso: «Allora me la dai sì o no questa cigaretta?!». Di solito al mio secondo no, aveva un fremito; poi con occhi dolci mi supplicava: «Dai, per favore, dammi la cigaretta». Studenti universitari più coraggiosi ingaggiavano veri e propri duelli, rotolandosi a terra dopo che lui aveva estratto le Colt e sparato. Io ho il rimpianto di non aver mai osato tanto. Lui non cascava mai. Non ne ha mai perso uno di quei duelli.

Poi c’era Giannilungo o Gianni Locco. Nel periodo in cui le auto avevano avuto la meglio sugli altri mezzi di locomozione urbani, lui decise di non entrare più col suo barroccio in città durante il giorno. Solo la notte era ritenuta idonea per portare a Pisa dei sacchi di farina col suo carro, che forse vendeva ai panifici. Così, nel cuore della notte, si sentiva da lontano il rumore degli zoccoli dei cavalli, e lo strusciare delle ruote. Gianni era anche alto, molto alto. Per quello lo chiamavano così. Diventò un po’ parente dell’uomo nero, quello che ti tiene “un anno intero”. I bambini più irrequieti venivano apostrofati con la frase “se non stai buono chiamo Giannilungo”, e avevano paura. Giannilungo era così lungo che il suo scheletro è esposto in uno dei musei dell’università. Anche se non mi ricordo quale.  

Cosa sognano i pisani in quarantena?

di Sandro Noto elaborazione grafica di Erica Artei

Seconda Cronaca vi invita a partecipare a un archivio onirico locale. Il primo contributo lo abbiamo scritto noi

Mai il giornalismo è stato così rutinario. Tutto evoca il Covid-19, dalle prime pagine agli oroscopi. A un subbuglio epocale è corrisposto un logorante appiattimento mediatico. Un paradosso “al quadrato”: il collasso dell’informazione su un’unica vicenda, sebbene eclatante, via via conduce all’impassibilità del pubblico. Un fenomeno perciò ovvio (tale è ormai il virus) che preclude inoltre l’azione umana e quindi l’origine delle storie. Nell’attuale monotonia, dove si celano allora le sorprese (ossia le notizie)?

All’inerzia corporea istigata dal Covid-19, si contrappone forse un fermento dell’immaginazione. In fondo ciascuno adesso è intento a rimodulare la propria identità proiettandola nell’incerto mondo post-pandemico, tra dilemmi pratici (“crolleranno gli interessi sui mutui?”) ed esistenziali (“sarò una persona migliore?”). Se dunque l’astratto è divenuto più stupefacente (cioè “notiziabile”, ribadisco) del reale, un giornale dovrebbe occuparsene, delineando magari una “cronaca dell’invisibile”.

Un’ambizione che in Seconda Cronaca spingiamo all’estremo, chiedendovi di raccontarci i vostri sogni (incubi inclusi, come da foto). È infatti accertato da psicologi, psichiatri e neurologi che l’emergenza sanitaria stia invigorendo l’attività onirica. E condividere la propria significa iniettare nel vissuto quelle sane fantasie che la pandemia ci sta inibendo: fatelo scrivendo a redazione@secondacronaca.it. Lunghezza a piacimento: non scorceremo né correggeremo i testi. Firmateli, almeno con uno pseudonimo.
Inizio io.


Ho sognato che sfrecciavo su uno scooter in coppia con Silvio Berlusconi. Guidavo io e non portavamo il casco. Il mezzo era un Piaggio NRG bordeaux (detto “Energy”), modello di tendenza fra i teenager pisani di metà anni Novanta (contemporaneo perciò alla “discesa in campo” del Cavaliere). Un dettaglio che riconduce la visione alla mia adolescenza, benché avessi l’aspetto odierno. Berlusconi invece era ringiovanito e rimpicciolito; così l’iconico doppiopetto gli cadeva largo esasperando lo svolazzo controvento. Fuggivamo come scippatori da un pericolo che ho dimenticato, insofferenti l’uno all’altro però complici. Percorrevamo ignote strade gremite di bambini che giocavano in calzoni corti.

Il prestigiatore Cesare Gabrielli, ovvero perché se vivi a Pisa devi vedere un film di De Sica

“I bambini ci guardano” del 1943 è un capolavoro del neorealismo, ma contiene anche una ragione locale per la quale ve ne suggeriamo la visione

di Antonio Petrolino

In queste settimane in tanti hanno cercato di aiutarci a passare il tempo domestico forzato.Velocemente sono apparsi corsi di ginnastica, di pizza napoletana e di giardinaggio e anche consigli per la lettura, l’ascolto e la visione. Tutti noi ne abbiamo tratto beneficio. Non essendo una rivista di settore, Seconda Cronaca non ha pensato di fare la stessa cosa. Solo che poi ci è venuto in mente un film e abbiamo cambiato idea.

Oggi vi proponiamo un film e non siamo soliti farlo. Quindi, come a volercene scusare, iniziamo giustificandoci. La questione è perché una testata locale e non di settore decida di proporre al suo pubblico, locale e anch’esso non di settore, la visione di un film. Ecco elencate alcune classiche motivazioni. Perché il film è stato girato a Pisa: falso! Perché si parla di Pisa: ma quando mai! Perché si vede la Torre: no, è girato a Roma e Alassio. Perché vi recitano attori pisani: no! La ragione è che in questo film appare un pisano (di Pontedera) la cui carriera è avvolta dal mistero, o meglio detto, la cui carriera è il mistero. E il pisano, nel film, recita sì, però interpreta se stesso. Si chiama Cesare Gabrielli. La vicenda di quest’uomo è così singolare che nel 1965, quando è morto ormai da oltre vent’anni, il giornalista Dino Buzzati prende un treno da Milano verso Pisa per saperne di più. Questo episodio lega il cinema al giornalismo e lo fa nello scenario della nostra provincia, per questo ve ne vogliamo parlare. Buzzati è cronista e inviato al Corriere della Sera e la storia ne farà uno dei più grandi, forse il maestro di tutti. Scrive spesso di esoterismo e credenze popolari, tanto che nel 1965 tiene sul Corriere una rubrica che si chiama “In cerca dell’Italia misteriosa”. Sono le ricerche per questa serie di articoli che lo portano a Pisa. Venerdì 3 settembre 1965 il Corriere pubblica un suo pezzo dal titolo “Gabrielli, vecchio fantasma”. Il Corriere è milanese, l’autore veneto di nascita, ma questo articolo è un’affascinante indagine giornalistica pisana.

Partiamo dall’inizio. Cesare Gabrielli è un mago, prestigiatore e illusionista. Nasce a Pontedera nel 1881 e da giovane fa il barbiere. Scrive Buzzati che un giorno, per superare un cagnone che blocca l’ingresso alla casa di un cliente che ha richiesto una barba a domicilio, Gabrielli lo ipnotizza. Il cane, non il cliente. Dopo questo episodio inizia con i primi spettacoli per bambini, poi aggiunge numeri più complicati e gira per i piccoli teatri della zona, ma le voci sulle sue doti corrono rapide. D’Annunzio lo definisce “l’uomo del futuro” e iniziano le tournée in mezzo mondo. Negli anni Venti del Novecento Gabrielli è una celebrità. In quel periodo a Pontedera, Pisa e dintorni si vede raramente, sempre impegnato in giro per il mondo.

Gabrielli morirà nel 1943 a Firenze, un anno dopo avere preso parte alle riprese di “I bambini ci guardano” di Vittorio De Sica. Per una scena del film, il regista ha bisogno di un prestigiatore. Si tratta di un ruolo secondario, ma non minore. Il film si sviluppa attorno alle menzogne messe in scena dai “grandi” di fronte ai bambini. Così anche lo spettacolo del prestigiatore, quello che dovrebbe distogliere i bambini dalle bugie, è una bugia anch’essa, l’illusione di un prestigiatore. Per questo ruolo De Sica potrebbe usare un attore, invece sceglie un professionista vero e si affida a Gabrielli. E, forse per riconoscenza o forse per la fama di cui Gabrielli, sebbene a fine carriera, gode ancora nel 1942, il regista decide di fare apparire il nome dell’illusionista nel film, quindi Gabrielli non recita il ruolo di un prestigiatore, ma è se stesso. Torniamo a Buzzati. Nell’articolo del 1965 il giornalista non fa riferimento a questo film, concentrando le indagini su chi ha conosciuto Gabrielli per comprenderne la personalità. La sua guida locale è Ferdinando Giannessi, professore universitario con residenza estiva a Buti. È lì che i due si incontrano prima di spostarsi a Pontedera, città natale del mago. Seguono due incontri con testimoni che definiscono carriera e carattere del personaggio, dall’aspetto, magrissimo come nel film, alla fortuna e alla decadenza di fine carriera, periodo in cui, scrive Buzzati, il mago fumava cento sigarette e faceva spettacoli privati in cambio di tabacco e cognac. Tra gli intervistati dal giornalista del Corriere è proprio Giannessi a ricordare di avere visto a Pisa uno spettacolo dell’illusionista. Nel dialogo con Buzzati, il professore specifica: “Ero in prima liceo e lo vidi a un avanspettacolo al Cinema Teatro Umberto”. Giannessi nel 1965 ha 39 anni, lo scrive Buzzati nell’articolo, quindi la sua prima liceo corrisponde a circa il 1940. Il Cinema Teatro Umberto è quello che poi, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, diverrà il Cinema Italia. La struttura del cinema esiste ancora, intatta, e contiene i locali di Benetton su Corso Italia. 

Lo spettacolo a cui fa riferimento Giannessi appartiene agli ultimi anni della carriera di Gabrielli, proprio il periodo in cui partecipa al film di De Sica, ma la vera gloria è precedente. L’articolo di Buzzati sul Corriere, infatti, attacca così: “Chi si ricorda Cesare Gabrielli, il famoso ipnotizzatore degli anni Venti?”. Prima di questo articolo e di questo film, noi Gabrielli non lo conoscevamo, però oltre a essere lettori di articoli di Buzzati e spettatori di De Sica siamo un giornale, quindi abbiamo pensato facesse parte delle cose giuste mettere un po’ del nostro lavoro su questa storia. Così ci è venuto in mente di cercare sulla stampa pisana del primo Novecento un segno del passaggio in città del mago all’apice della carriera. Ci mettiamo a consultare online l’emeroteca del Servizio Bibliotecario Nazionale dell’Università di Pisa. La ricerca appare lunga e complicata perché cercando “Gabrielli” vengono fuori centinaia di risultati, mentre la chiave di ricerca più ristretta “Cesare Gabrielli” non ne fornisce alcuno. Allora ci ricordiamo che, ne “I bambini ci guardano”, Gabrielli è presentato da un cartello con un improbabile appellativo, che non è mago, né prestigiatore, né illusionista. Il ricordo è vago, e il cartello nel film non c’è. Ci sono dei volantini però, lanciati da un aereo sulla spiaggia di Alassio e raccolti da un gruppo di bambini. Il volantino presenta lo spettacolo di magia di un prestigiatore chiamato “Prof. Gabrielli”. Ecco come lo chiamavano: professore! Torniamo sul sito dell’emeroteca e inseriamo la nuova chiave di ricerca: 2 risultati. Il primo è un numero de Il Corriere dell’Arno del 1880, troppo antico, Gabrielli nascerà un anno dopo, nell’81. Il secondo è Il Ponte di Pisa del maggio 1918. Allora clicchiamo e sfogliamo. 

Su Il Ponte di Pisa di quegli anni esiste una rubrica intitolata Fra Parrucche e Gibus che presenta i più interessanti spettacoli cittadini della settimana. È tra quelle righe che troviamo l’annuncio che il “prof. Gabrielli” sarà a Pisa, al teatro Rossi, il 25 maggio del 1918. Così, a questa storia che lega assieme con un filo (magico e invisibile!) il più grande cronista, un geniale prestigiatore tabagista, un capolavoro del cinema italiano e la nostra città, aggiungiamo, un po’ emozionati, un microscopico tassello. E lo ripubblichiamo per intero dopo 102 anni esatti: Fra Parrucche e Gibus // Al Rossi.Il famoso lettore del pensiero prof. Gabrielli terrà due sedute al Rossi Sabato sera 25 e Domenica sera 26 corrente. Gli esperimenti di trasmissione del pensiero hanno grande fascino sul nostro pubblico che si diverte e si distrae in un passatempo di curiosità e di decenza.

Negli aerei pisani che salvano le vite

In occasione di un nostro fotoreportage su un’esercitazione di trasporto in “bio-contenimento”, i medici della 46ª Brigata Aerea ci hanno raccontato il loro speciale rapporto con i pazienti (breve, ma spesso decisivo)

Nella foto: Una barella viene caricata all’interno dell’aereo


di Tiziana Paladini foto di Enrico Mattia Del Punta

Ci sono dottori che salvano vite senza neanche toccare i pazienti. E ci sono pazienti che viaggiano verso la salvezza con mezzi nati per altri scopi. Sono i pazienti e i dottori che decollano con gli aerei militari: da più di dieci anni l’Aeronautica Militare è impegnata nel Pronto Impiego Sanitario di Urgenza, un’attività assicurata per qualsiasi tipo di emergenza medica che ne richieda l’intervento.

«Le emergenze riguardano pazienti che si trovano in imminente pericolo di vita», ci dice il generale Girolamo Iadicicco, comandante della 46ª Brigata Aerea di Pisa. «Spesso sono piccoli pazienti che vengono portati soprattutto al reparto di terapia intensiva del “Bambino Gesù” di Roma o al “Gaslini” di Genova. In genere non abbiamo più notizie dei pazienti che trasportiamo: salvo casi di rilevanza nazionale evitiamo di chiedere un riscontro agli ospedali, anche per motivi di privacy. Prendere però in carico delle persone, affidarle ai nostri medici e infermieri e poi non saper più nulla di loro ci dispiace».

A questa attività di urgenza se ne affianca una ancora più specialistica che è il trasporto di pazienti altamente infettivi con la modalità di bio-contenimento, ovvero in totale isolamento e sicurezza. Il trasporto in bio-contenimento prevede che il paziente venga messo in una struttura che lo isola dall’ambiente esterno. L’isolamento avviene tramite due sistemi: attraverso la filtrazione dell’aria in uscita dalla barella (vengono utilizzati filtri HEPA che purificano il flusso d’aria del 99,98%) e attraverso l’applicazione di una pressione negativa che fa sì che tutto ciò che, in termini di germi, è all’interno della barella rimanga lì confinato. I medici e gli infermieri possono operare sul paziente grazie a sei coppie di manichette che terminano su un guanto.

La barella ha 6 coppie di manichette che terminano su un guanto per consentire all’equipe medica di essere a diretto contatto col paziente

Poco più di un decennio fa l’Aeronautica ha deciso di dotarsi di questa capacità, acquisendo speciali barelle e avvalendosi delle competenze del suo personale sanitario. E per lungo tempo solo l’Italia ha avuto questa specificità. In Europa poi si è aggiunta la Royal Air Force britannica. Curiosamente l’Italia aveva acquisito questa capacità proprio dagli inglesi che, pur detenendone il primato, avevano poi deciso di abbandonarla perché troppo dispendiosa per le loro necessità. «Abbiamo aggiunto tanta esperienza a quella che già avevamo – dice Iadicicco – Ci stiamo rivelando leader in questo settore: non a caso, di recente, il Ministro della difesa Guerini ha offerto la nostra capacità alle altre nazioni che aderiscono all’alleanza atlantica qualora ne avessero bisogno».

Con l’emergenza Covid questa peculiarità si è rivelata fondamentale, traducendosi fin dai primi di marzo in missioni di trasporto in bio-contenimento da un ospedale all’altro, soprattutto per alleviare la pressione sul nord Italia. «All’inizio dell’emergenza – spiega il comandante – questo è stato possibile grazie agli elicotteri del 15° Stormo dell’Aeronautica (di stanza a Cervia, ndr). Poi è subentrata la necessità di trasporti presso centri di cura più lontani, in Italia e all’estero, così si è attivata la 46ª con i suoi C130 e i C27J, per la versatilità degli aerei, in grado di trasportare da tre a cinque barelle insieme, e per la velocità dei mezzi».

L’interno di un C130

Così i ritmi di lavoro si sono fatti sempre più serrati. In media ogni anno la 46ª effettua tra le 6 e le 12 missioni. A causa del Covid però nel giro di un mese, a partire dallo scorso 12 marzo, sono stati effettuati 9 voli per 17 pazienti. L’organizzazione di un trasporto in bio-contenimento è complessa. Per approntare l’equipaggiamento c’è bisogno di tempo: la sanificazione delle barelle consiste nell’iniettare e nebulizzare al loro interno una sostanza che, dopo cinque ore, viene fatta evaporare; vengono sanificati tutti i materiali usati, tranne quelli monouso che vengono eliminati. Al rientro da un trasporto, però, la squadra è in grado di ripartire nel giro di sole tre ore, perché altre barelle sono già pronte per essere utilizzate. Il personale sanitario è affiancato dagli specialisti di volo che si occupano delle operazioni di carico e scarico e soprattutto del bilanciamento dei pesi all’interno dell’aereo per garantirne la stabilità e agevolare così il lavoro di medici e infermieri.

Gli specialisti di volo, in genere tre, si occupano delle operazioni di carico e scarico e del bilanciamento dei pesi all’interno dell’aereo

Tra i medici coinvolti c’è il tenente colonnello Crispino Ippolito, che lavora all’Istituto di Medicina Aerospaziale di Milano-Linate. È stato richiamato a Pisa essendo un anestesista rianimatore addestrato per il trasporto in bio-contenimento. «Prendersi cura di pazienti Covid – ci spiega – non è come avere a che fare con altri tipi di pazienti. Innanzitutto perché presentano criticità di carattere generale. Inoltre il tipo di barella complica le operazioni, soprattutto di notte, quando la temperatura è più bassa: è come lavorare contro la gravità perché queste maniche di plastica, essendo abbastanza rigide, ostacolano i nostri movimenti». Ippolito spiega che la stabilità in volo sicuramente non è la stessa di quando si lavora “a terra”, ma chi fa questo tipo di lavoro ormai è abituato; gli unici problemi si riscontrano al decollo e all’atterraggio, fasi durante le quali medici e infermieri dovrebbero rimanere seduti. «Soprattutto con i primi pazienti, al momento del decollo è capitato di dover stare in piedi, perché il paziente non era ancora stabilizzato perfettamente dal punto di vista delle sue condizioni cliniche. L’assistenza al paziente ha sempre la priorità. Spesso poi i pazienti sono coscienti e qualche volta spaventati. È comprensibile: le barelle sono una specie di gabbia di plastica, stare lì dentro può essere angosciante. Un paziente che abbiamo trasportato di recente ha avuto un momento di sconforto e ha iniziato a piangere. Allora l’infermiere si è avvicinato, gli ha dato una piccola pacca sulla spalla e hanno iniziato a chiacchierare. Così, piano piano, la tensione si è allentata. È stato un momento molto intenso». I pazienti presi in carico dai medici e dagli infermieri militari per poche ore diventano i “loro” pazienti: «Dobbiamo essere all’altezza dei nostri colleghi degli ospedali, che ce li affidano pieni di speranza. Ci piace dire non tanto che curiamo, ma che “ci prendiamo cura” delle persone che ci vengono affidate. Non solo dal punto di vista clinico, ma anche in senso umano. È impossibile non essere empatici, altrimenti non faremmo questo lavoro. Per questo forse è difficile vederli andare via sapendo che difficilmente avremo loro notizie. Ho quasi paura a chiamare i colleghi per sapere come stanno i pazienti, si rimane sempre in pensiero».

Un medico in attesa di salire a bordo dell’aereo

Ogni tanto però arrivano delle belle notizie, anche per l’attività di emergenza “ordinaria”. Come l’anno scorso, quando uomini e donne della 46ª sono stati invitati al “Bambino Gesù” dove non solo hanno potuto conoscere i medici e gli infermieri che hanno curato i bambini portati lì, ma hanno anche saputo che alcuni di loro, nel frattempo, erano guariti e rientrati a casa.

Quando si davano i filmacci a “porche chiuse”

Dal “giallo erotico di Vecchiano” all’affaire delle “Casalinghe in umido”. Quindici anni di scandali sessuali pisani a mezzo stampa raccontati in un articolo di Seconda Cronaca del 2014, apparso nel numero intitolato “Pisa erotica” (che apriva con l’editoriale “Pisa non è erotica”)

di Simone Rossi, immagine di copertina di Michela Biagini

Già ci stiamo prendendo una bella responsabilità ad aprire questo numero dicendo che Pisa non è erotica quando il suo monumento più famoso è un simbolo fallico per eccellenza. Se poi trascorriamo una mattinata in emeroteca a spulciare nella cronaca locale dell’ultima quindicina d’anni in cerca di “scandali sessuali”, sulle prime rischiamo di cascarci. Perché se Pisa non è erotica, la stampa ha provato spesso a farci credere il contrario.

Il primo caso giornalistico che rinveniamo ci porta nella vicina provincia. Il 26 febbraio 1999 su Il Tirreno scoppia il “giallo erotico a Vecchiano, in subbuglio per una pellicola hard”. In cronaca di Pisa il quotidiano titola “Quando l’attrice del film porno è la ragazza della porta accanto”. Una signorina del paese avrebbe girato un film a luci rosse o, come si diceva una volta tra ragazzi, un filmaccio. Firmando sì un contratto dotato di clausola che ne doveva impedire la distribuzione nella zona di residenza della protagonista, ma in qualche modo la pellicola è arrivata a Vecchiano scatenando “dapprima risatine, ammiccamenti, poi un passa parola imbarazzante. La notizia, come nelle migliori tradizioni, è passata di bocca in bocca…”. L’articolo successivo è datato 2 marzo: “Altri interpreti di film hard a Vecchiano”. Dal sottotitolo, “Circolano anche nei bar pellicole con altre ragazze e uomini del paese”, esce l’immagine di un fenomeno dilagante in un vero luogo di perdizione, ma è nel corpo del testo che troviamo il capolavoro. Un secondo film porno sarebbe stato fatto vedere in un locale non lontano dalla sede comunale… “ovviamente a porche chiuse”! Soltanto un refuso o un intenzionale colpo di genio?

Ricerchiamo inutilmente le stesse notizie su La Nazione, ma dobbiamo tornare su Il Tirreno per recuperare, con un balzo in avanti di circa tre anni, un caso passato alla storia. 13 giugno 2002: “La città a luci rosse”. “Pisane Hard, una videocassetta che fa scandalo”, “Protagoniste una bellissima commessa del centro e una ventenne infermiera” sono titolo e sottotitolo di un servizio che ci informa che è stato “girato un lungometraggio dove le roventi protagoniste a luci rosse sono nostre «vicine di casa»”. Dall’emblematico titolo Casalinghe in umido, mostrerebbe oltre 180 minuti di scene calde e il tema sembra quasi monopolizzare l’attenzione cittadina, anche grazie alla (astuta?) progressiva aggiunta di piccoli particolari volti a solleticare la curiosità dei lettori. Nell’edizione del giorno seguente si titola “Pisane hard, è caccia alle «attrici»”. “Una esplosione di curiosità sulla videocassetta che fa scandalo”. E ancora “Di sicuro alcune scene sono state girate tra Coltano e l’inceneritore”, poi l’attacco del pezzo: “Il sesso che fa notizia, il sesso che fa opinione, il sesso che divide una città…”. Un crescendo che prosegue il 15 giugno. “Il film hard? È la punta di un iceberg”, “Si stringe il cerchio intorno alle protagoniste pisane hard del film in edicola da martedì…”. Ma proprio quando la suspense sale alle stelle e si approssima la tanto attesa commercializzazione del film, tutto pare sgonfiarsi e Il Tirreno non ne parla più.

Su La Nazione pure di cotanta faccenda non si è scritto affatto, ma anche questa testata deve smuoversi per forza quando, diversi anni dopo, salgono alla ribalta i fatti della segretaria di un circolo PD di una frazione di San Miniato riconosciuta sulla scena di un altro film pornografico. Ci spingiamo di nuovo in provincia ed è già il 29 giugno del 2011. “Recita nel film porno, sospesa dal PD”, “Choc nel partito: giovane segretaria del circolo invitata a dare le dimissioni”. Siamo in cronaca di Pontedera/Valdera, ma c’è la politica di mezzo e la questione si fa subito nazionale. Perciò due giorni dopo la notizia va… in Primo piano Pisa: “Il centrosinistra è scosso. «La ragazza deve meditare»”. Su Il Tirreno, invece, la vicenda passa dalle pagine di S. Croce/S. Miniato/Castelfranco (“Ex politica diventa attrice porno”, “Il comune di San Miniato in subbuglio: in tanti l’hanno riconosciuta”) direttamente a pagina 2: “Il sindaco difende l’attrice hard: brava ragazza”. Siamo ormai ai giorni nostri. Ci accorgiamo che i casi di stalking sembrano andare molto più di moda, forse perché prima non c’era un inglesismo a identificarli. Sui giornali ogni tanto spunta quello che vede l’attore pisano Andrea Buscemi accusato da una sua ex e risaltano i vip da lui citati come testi al processo. Gli scandali di una volta non ci sono più.