Come adeguarsi alle mascherine chirurgiche grazie al teatro in maschera

di Franco Farina e Sandro Noto foto di Erica Artei

Seconda Cronaca conobbe l’attore fiorentino Duccio Bellugi Vannuccini nell’estate del 2017 a San Miniato, lavorando a un reportage su Prima del Teatro. Pilastro del Théâtre du Soleil, storica compagnia avanguardista di Parigi, stava conducendo un seminario sull’improvvisazione connessa all’uso di maschere balinesi e della commedia dell’arte. 

Ci parlò di come la maschera sul corpo dell’attore permetta la straordinaria apparizione di un personaggio e di come il corpo per accoglierlo debba sapersi modificare; di come l’attore debba indossare la maschera attraverso un ben preciso rituale. Solo a queste condizioni assistiamo alla sparizione dell’attore e alla comparsa di un Arlecchino, di un Brighella o di un bondres balinese. Solo se sa fare questo l’attore può dar vita al personaggio, altrimenti “soffocherà” sotto la maschera.  

A Duccio, che di maschere appunto se ne intende e parecchio, dal punto di vista antropologico, teatrale e formativo, abbiamo chiesto che ne sarà di noi adesso che una maschera particolare siamo costretti ad utilizzarla e col suo diminutivo in “ina” non assicura certo di essere meno potente ed innocua. Le mascherine chirurgiche imposte dal Covid-19 alterano infatti l’umore, la fisionomia e il tono della voce, costringendoci a rivisitare la nostra identità. Enfatizzano il ritmo e l’odore del fiato, rendendocene consci tra stupore e disagio. Così in questa video intervista realizzata da Sandro Noto e Franco Farina l’attore Duccio Bellugi Vannuccini ha immaginato (“giocando”) quali benefici potremmo attingere dall’arte della scena per affrontare la routine ai tempi del Covid-19 (spoiler: nei palcoscenici il “distanziamento sociale” è da sempre una regola).

L’essere vivente più anziano di Pisa

di Antonio Petrolino

È un albero, così longevo perché da due secoli si fa gli affari suoi 

Anni fa mi capitò di intervistare il professor Giacomo Lorenzini, ordinario di Patologia vegetale presso il Dipartimento di Scienze agrarie, alimentari e agro-ambientali dell’Università di Pisa. L’argomento di allora era (sic!) un’epidemia, quella che stava colpendo i platani cittadini. Ne furono abbattuti a decine a causa di una malattia chiamata “cancro colorato del platano”. Una cosa in particolare mi rimase impressa di quella chiacchierata. Secondo Lorenzini l’essere vivente più anziano di Pisa (giardino botanico chiaramente escluso dal computo) è un albero. Il platano accanto alla Cittadella. Secondo il professore ha circa duecento anni e sopravvive così a lungo grazie al fatto che non ha altre piante vicine e quindi è più tutelato verso la trasmissione di parassiti e malattie. Di fatto, il platano è in isolamento da due secoli.

E allora siamo andati a ricercare questo albero nelle foto più antiche che abbiamo trovato (chiedendo al nostro direttore di sfogliare per noi la sua intera biblioteca di storia pisana). Ecco il confronto con oggi.

Foto di copertina A sinistra: la Cittadella fotografata all’inizio del Novecento con un albero sulla destra. Foto tratta da “Pisa una volta” di Athos Bigongiali, Pacini Editore. A destra: la Cittadella oggi. Foto di Federico Pellicci.
Conclusione: potrebbe essere lui.

Di seguitoFoto 1: 1922 – il Sostegno con la Cittadella e un albero sullo sfondo. Foto tratta da “Almanacco pisano” di Giampiero Lucchesi, Tg Book Editore. Foto 2 : la stessa vista oggi. Immagine tratta da Google Street View.
Conclusione: potrebbe essere lui di nuovo.

Foto 1
Foto 2

«Il mio pianoforte è Corso Italia, il pc le Vettovaglie»

di Matilde Giampieri foto dall’isolamento di Tommaso Novi

La mania del caffè e dei bastoncini di pesce. La nostalgia della pesca e della motocicletta. Viaggi mentali e confessioni di Tommaso Novi in quarantena, “recluso” in una casa che ne svela vizi, passioni e ossessioni

«Provo una sensazione d’odio verso i social, come mai prima d’ora. Non mi ritrovo proprio per niente in questa angoscia generale, tutti che si disperano. Non riesco proprio a comprenderlo». Mentre quasi tutto il mondo è in preda al panico da quarantena, Tommaso Novi rappresenta una grande eccezione. Venti anni fa si era reso conto che la sua vita era diventata come il film Trainspotting e volle mettere fine a quel vortice di dipendenze. Come una monaca decise di chiudersi in una clausura forzata e di prendersi una pausa dal mondo circostante. «La prima clausura l’ho vissuta come una manna dal cielo, nel senso che è stata per me una scoperta geniale. Mi sono sentito un eroe. Ho reagito diversamente per quanto riguarda questa quarantena perché potrei sprofondare a livelli che non ho mai toccato (un eccesso di abbrutimento da divano). C’è questa condizione di allerta costante che mi porta a fare movimento, faccio squat, flessioni, rispondo al telefono. Insomma, ho quarant’anni ed è tutto diverso, anche se alcune azioni si ripetono».

Durante la prima clausura Tommaso sostituì alla vita reale quella virtuale, che lo teneva a giocare al pc anche quattordici ore filate. Fu un periodo frenetico che vide Tommaso destreggiarsi tra svariati livelli e trincee virtuali. Se mi copri rollo al volo, il suo album uscito nel 2017, è il riassunto perfetto di quel periodo di clausura. I videogame sono rimasti una costante nella sua vita: un pc per scoprire una nuova realtà fatta di fughe, battaglie, guerre e strategie. Ecco che il videogioco Terraria diventa una grande metafora della sua esistenza, passata e odierna: si tratta di un escape game in cui bisogna scavare all’infinito per ottenere il materiale necessario per costruire il proprio mondo. Non a caso Mi sono scavato la casa è il titolo del suo primo libro, e a suon di livelli e di sfide Tommaso è riuscito a costruire la sua realtà così particolare, eclettica, ludica. «Sono passati esattamente vent’anni dall’ultima clausura», ed oggi, che la pandemia ha chiuso nuovamente l’ex cantante dei Gatti Mezzi nelle quattro mura di casa, le cose sono un po’ cambiate. «Ho capito di aver attraversato due fasi: in prima battuta ho subito pensato di essere più ganzo di tutti perché avevo già vissuto una situazione simile, con il passare delle settimane avverto un sentimento strano e diverso dal sentire comune. Sono sicuro che mi sentirò ancora peggio quando tutto finirà perché io sto bene a casa».

Il rumore del decollo degli aerei e il cigolio delle ruote dei treni fanno da colonna sonora al quartiere San Marco. Questo suono inconfondibile pervade la casa di Tommaso e si mischia alle note del suo pianoforte per arrivare fino a me, collegata in videochiamata da San Martino. Approfitto della situazione, e della sua indole, per realizzare un’intervista che diventa ben presto un gioco in cui, non potendo muovere le mie pedine da sola, lascio fare a lui. Questo gioco ha fatto sì che Tommaso diventasse anche fotografo e così ha aperto le porte della sua casa attraverso racconti e immagini. La partita inizia. «Mi piace pensare alla mia casa come alle zone di una città», dice Tommaso, iniziando a fare da cicerone nella sua Pisa in miniatura: piazza delle Vettovaglie con i suoi chiacchiericci, la musica fino a tardi e la perenne coltre di fumo è l’angolo del computer con due casse che sparano a volume altissimo le colonne sonore dei videogiochi. Proprio su quel 24 pollici si è formato il suo gruppo di gamers, “I cinghiali erranti”, che rappresenta una piazza virtuale. La sedia si gira ed è ponte di Mezzo per catapultarci tra le vetrine di Corso Italia: «Quando suono ho questa forte pulsione di cercare qualcuno che mi ascolterà, quindi il pianoforte sfama il mio narcisismo, d’altro canto si va in Corso per farsi vedere, per vivere la crema della società. Così mi piace pensare al pianoforte come a una vasca in Corso Italia». Il cuore della casa è proprio questo enorme pianoforte a coda sul quale si è generata un’entropia totale che vede i soldatini mischiarsi agli spartiti di Mozart e agli accordi di Dalla.

Allora il giardino circondato da siepi che impediscono la vista è il viale delle Piagge e così Tommaso, con la scusa di “buttare via il vetro”, scappa per un momento dalla sua Recanati e inizia un’avventura sulla via Sant’Efisio e Potito dove riscopre «sensazioni psico-fisiche molto gratificanti: il vento, la camminata, ma soprattutto guardare oggetti lontani. E così capisco che la quarantena ha provocato degli effetti anche su di me che ci sono abituato». Confessa che rivivere la clausura a vent’anni di distanza fa un certo effetto, oltretutto non la vive completamente da solo: per metà della settimana c’è il figlio con lui e questo ha fatto riemergere la sua «parte paterna fatta di orari, scadenze, normalità e di notifiche della chat delle mamme». Il figlio lo riporta alla normalità e cambia anche la sua dieta abituale. «Ho un rapporto strano con il cibo, quasi al limite del disturbo alimentare. Mi cibo più che altro per sopravvivenza», tanto che il piatto forte in casa Novi in questi giorni è bastoncini di pesce, crackers e maionese.

L’offerta del frigo di Tommaso Novi

«Fino ai trent’anni ho cucinato pranzo e cena con molto piacere. Apparecchiare e mettere in tavola un pasto a una persona secondo me è un grande gesto d’amore. In questi ultimi anni vivo un po’ la contraddizione che vede da una parte la mia passione per la cucina e dall’altra un certo rifiuto che probabilmente deriva dalla condizione del single separato. A volte mi trovo a tavola da solo e capita che faccio qualche riflessione un po’ dolorosa, così sto meglio mangiando un tramezzino mentre sono in guerra sul pc. Quando c’è mio figlio torno ad essere una persona normale». Un sentimento paterno ritrovato, una voglia di “guardare lontano oltre la siepe”, uno stato di allerta costante per tenere d’occhio il giusto bilancio di vizi e virtù. Insomma, siamo di fronte a un Tommaso Novi cambiato. Aggiornato alla versione 2.0 di sé stesso.

Tommaso ha molte fissazioni, e una dipendenza su tutte: il caffè. «Senza pianoforte, senza pc, senza tabacco riesco a vivere, ma senza caffè mi è impossibile». E poi ci sono le svariate ventoline, stufe e phon che nell’entropia generale di casa Novi regnano sovrani: «In ogni stanza ho una ventolina che fa rumore e quando mi sposto le accendo, mi aiutano a pensare. È una piccola dipendenza, fra tutte le altre, che però non trovo così pericolosa».C’è un argomento che al solo nominarlo fa dilatare le pupille di Tommaso come se fosse qualcosa di stupefacente: «Boia, è una delle cose che sto smaniando di più. La pesca è uno dei motivi che mi fa uscire di casa anche a cose normali. Farei carte false per un permessino che mi portasse sul mare. Finita la quarantena prendo la moto e scappo a pescà’, subito. Quando monto in moto perdo il cervello. È una moto che va molto forte, quando hai spazio in autostrada e puoi tirarle un po’ il collo avviene questo bombardamento di dopamina, serotonina, insomma un mix devastante. Poi scendi e ti lascia addosso qualcosa di paragonabile a sostanze pesanti, un delirio di onnipotenza. Diciamo che quando sono in moto mi sento molto bello». E aggiunge: «Passi per le vie, tutti ti guardano e pensi “Madonna ragazzi, ma cosa ciò, ma cosa sono?”». È da queste sensazioni che nasce il nuovo singolo Molto bello, una canzone che parla della «libertà e della follia che ti entra nella testa quando vai forte sulla moto. È un po’ come quando ti metti un vestito e in questo senso mi sento molto femmina». E parlando di “femminilità” mi dice della moto e della sua compagna: «Vado da solo, ma rimane molto bello anche andare in due. Con la giusta “zavorrina” è un’altra cosa; è veramente ganzo. Poi finita la quarantena la passo a prendere».

Lo strano caso della testa falsa di Modigliani battuta dieci piatti di pasta

Una pizzeria di Porta a Lucca lo scenario

di Antonio Petrolino foto di Alice Falconcini

L’ultima volta che ho preso il telefono per Seconda Cronaca era di febbraio. Vi ho registrato sopra un’intervista mentre il fuoco di un forno a legna scoppiettava fastidioso in sottofondo. Mi trovavo, con Alice alle foto, al bancone della pizzeria La Spigolatrice, in via Cagliari. Quel forno è spento dal 9 marzo. In aprile, invece, questa storia avrebbe dovuto uscire sul cartaceo. Vi si racconta di arte, Livorno e piatti di pasta. Ma quel numero non c’è stato. Nell’attesa di tornare in pizzeria, in edicola e, sì, anche a Livorno, ho creduto di sfornarlo questo fatto curioso successo a Porta a Lucca nel 1984. Occhio che scotta.

Vittorio, pizzaiolo e gestore della Spigolatrice: «Non lo so se può avere un valore sul mercato, una volta un tizio mi offrì trecento euro per portarla via questa testa, ma io rifiutai. Non lo so, forse non vale niente, so soltanto quanto ho pagato io per averla: dieci piatti di pasta». Seconda Cronaca: «Come dieci piatti di pasta?». Vittorio: «Ok, partiamo dall’inizio».

Nell’agosto del 1984 i livornesi confezionano il più grande capolavoro della storia dell’arte labronica: la beffa di Modigliani. La storia è nota, ma troppo bella per non spendervi qualche riga. In città da decenni si fa strada la leggenda secondo la quale Amedeo Modigliani in un momento di ira e delusione, dovuto alla scarsa considerazione degli artisti del Caffè Bardi verso le sue opere, avrebbe caricato su un carretto tre figure di testa scolpite su blocchi di pietra e, giunto sul Fosso Reale, le avrebbe lasciate cadere oltre il muretto. Autorevoli personalità (e persino la figlia di Modì) additano questa storia come immaginaria e inverosimile, ma personaggi di altrettanto rilievo nel panorama della cultura italiana vi danno credito. Fatto sta che nell’agosto del 1984, appunto, i livornesi cominciano a dragare il Fosso Reale in cerca delle teste. Negli stessi giorni, però, altri livornesi preparano il capolavoro. Tre studenti prima e un artista dopo scolpiscono un totale di tre teste su blocchi di pietra e le lanciano nel fosso. Dopo qualche tempo le draghe le ripescano e la comunità di storici dell’arte di mezzo mondo ci casca fragorosamente. Non tutti ovviamente, ma molti e illustri. I primi falsari a venire allo scoperto sono i tre studenti che si mostrano ritratti con la testa scolpita prima del lancio nel fosso e vanno in tv, da Speciale TG1 e Maurizio Costanzo show, a mostrare come si scolpisce un Modigliani in meno di due ore. Per critici, soprintendenze e storici dell’arte coinvolti è una beffa colossale, forse mai eguagliata.

In quei giorni, a Pisa, un falegname ripete le sue giornate identiche in via Cagliari. Al mattino sveglia e lettura giornali alla Spigolatrice (che al tempo apriva anche come bar), poi a lavoro nella bottega, che poi è un garage in fondo alla via, e la sera di nuovo alla Spigolatrice a prendere un piatto caldo di pasta da portare a casa (che è sopra il garage). Il falegname non mangia mai nei locali della Spigolatrice per contenere i costi. Relativamente alla condizione economica non attraversa un periodo sereno della propria esistenza. Si chiama Piero Sbrana e ha sessant’anni.

Una di queste identiche mattine Sbrana sta sfogliando Il Tirreno mentre beve il caffè. Vittorio: «Ecco, ora io non posso ricordare i dettagli, ma certo è che andò pressappoco così: sul Tirreno si parlava della storia delle teste di Livorno e degli studenti che le avevano scolpite in due ore. E allora Sbrana deve aver detto qualcosa del tipo “Eh, ci vuole anche meno tempo a farle” e qualcuno deve avergli risposto “Falle te allora, se sei bravo!” e lui deve avere commentato qualche altra cosa come “Se poi qualcuno me le compra, le faccio sì!” e io devo avere detto “Una testa te la compro io. Quanto vuoi?” e lui rispose, di questo sono certo, esattamente così: “Se mi dai dieci piatti di pasta da portare via, vedrai se te la faccio!” E io accettai all’istante». Eccola la testa, di certo non esposta, più che altro si direbbe appoggiata a una mensola accanto a un dispenser di accendini. Entrambe le opere, testa e dispenser, sono senza dubbio espressione degli anni Ottanta. La testa è custodita dentro una teca di legno e vetro dentro la quale lo stesso Piero Sbrana la consegnò. Vittorio: «Saranno passati quattro o cinque giorni e Sbrana tornò con la testa dentro questa teca. L’aveva scolpita su un pezzo di pietra serena che aveva in garage. Ci tenne a precisare che ci aveva messo meno di due ore: un’ora e cinquantadue minuti. È bella vero? Sbrana aveva una grande mano. In casa nostra ci sono tutti i mobili fatti da lui su misura». La testa viene ammirata dai clienti del locale e la voce, che in una pizzeria di Porta a Lucca c’è una testa uguale a quelle di Livorno, si diffonde veloce tanto è che un collega del Tirreno dell’epoca va a trovare Vittorio e Piero Sbrana alla Spigolatrice. Il cronista chiama la testa della Spigolatrice “Modì 5”. 

Seconda Cronaca: «Vittorio, le teste di Livorno erano tre, perché “Modì 5”?». Vittorio: «Perché Sbrana disse che ne aveva scolpita un’altra, la quarta testa, ma nessuno l’ha mai vista». Piero Sbrana è morto da più di dieci anni. Di “Modì 4” ancora nessuna traccia.

Quando il fattorino è re

di Franco Farina

Come il Covid ha esaltato l’attività di Paolo Morabito, che prima effettuava cinque “ciclo-consegne” al giorno, adesso quasi cinquanta ed è uno dei pochi a vivere tutta la città

È difficile intervistare Paolo Morabito. Cerco nella mia pluridecennale carriera di giornalista le interviste più difficili ottenute e questa rischia di batterle tutte: cinque giorni di vani appostamenti facendo nell’attesa, con tanto di mascherina, la lunga coda al negozio di alimentari dove lavora, senza riuscire a intercettarlo. Paolo non c’è mai. Più si avvicina Pasqua e più le soste per ricaricarsi di merce sono poche e veloci. I clienti aspettano il cibo obbligati nei loro “nidi” e Paolo è diventato non solo utile (è sempre comodo che qualcuno ti porti la spesa a casa), ma in questo momento quasi salvifico.

Il suo lavoro è cambiato (dentro la bottega due persone lavorano a prendere gli ordini e preparare le spese che deve consegnare) e aumentato (del 700%), ora che la gente cerca/deve uscire di casa il meno possibile. Dalle 5-7 consegne domiciliari per «fare una gentilezza per i clienti», è passato a pedalarne 40-50, «perché è una necessità». Il suo orario di lavoro si è dilatato, i suoi chilometri moltiplicati in proporzione. Sì, perché per scelta personale, quasi tutte le consegne Paolo continua a farle in bicicletta, anche se ha a disposizione la scelta tra due auto. 

In questo momento credo che sia una delle persone che vede in maniera più estesa e puntuale la città, dato che oltretutto le sue “missioni” spaziano da Ghezzano a San Rossore: «C’è troppa gente in giro – mi ha detto quasi una settimana fa – La gente non ce la fa più a stare a casa» e due giorni dopo tutti i telegiornali hanno aperto con l’eccesso di frequenza delle persone nelle strade e nelle piazze. «Io faccio quello che posso, ma non è un problema di necessità, è che cominciano a non farcela più con la testa».

«Sarà un’ora che non lo vedo – mi dice Francesco, uno dei proprietari del negozio – Specie in questo periodo si gestisce un po’ da solo. Lui sente molto la responsabilità. Uno dei primi giorni di quarantena diventò una bestia quando un signore svuotò letteralmente gli scaffali. “E ora cosa gli diamo a tutti gli altri?!”, ripeteva sconcertato». Aggiungo che Paolo non è proprio un ragazzino, (dato che veleggia oltre i cinquanta) e che certamente non fa tutto questo moto per mantenere il fisico o per le mance dei clienti, che mi assicura non essere cambiate malgrado i tempi che corrono.

La cosa che lo stimola di più è proprio il rapporto con le persone che poco alla volta si affidano, in quantità crescente, alla sua ostinata efficacia. Prima o poi Paolino arriva, anche perché, malgrado il negozio chiuda alle 13.30 lui, in questo giorni, finisce di consegnare alle 15.30. Se ve lo presentassero forse pensereste a un uomo tranquillo, un po’ schivo, routinario e magari sedentario; ma al di là di questa sua spiccata propensione per i micro-spostamenti, egli ama in realtà anche le grandi distanze: Los Angeles e Las Vegas dove è andato ben quattro volte per giocare d’azzardo («e che ci si va a fare altrimenti a Las Vegas» mi dice, contrappuntando la mia perplessità); ma anche Sudafrica e Giappone. «Ma questa situazione mi ha bloccato la fantasia riguardo al prossimo viaggio», mi dice un po’ rassegnato.

Se vi capitasse di incontrare in una delle strade del centro un ex ragazzo un po’ maturo, di corporatura media, con una normale bicicletta stracarica di roba, spesso in equilibrio non necessariamente precario, quanto certamente impegnativo, probabilmente è proprio Paolo Morabito, in arte Paolino; provate a chiamarlo, ora che la Pasqua è passata, magari il tempo per fare due chiacchiere lo trova; ovviamente con la mascherina e alla debita distanza.

Amici, compagni, chef

Gli ex di Lotta Continua divenuti ristoratori ci raccontano il perché di una scelta

L’isolamento casalingo imposto dal Covid-19 sta accentuando le smanie culinarie degli italiani. Eppure nel paese dei cuochi un tempo i buongustai erano un’audace nicchia. I primi innovatori della gastronomia pisana furono degli ex di Lotta Continua, divenuti ristoratori in epoca post-sessantottina. Questo articolo di Sandra Burchi, pubblicato ad aprile 2014 nel terzo numero di Seconda Cronaca, ne racconta la storia.  

di Sandra Burchi, foto di Carlo Gattai

Per anni Carlo Silvestrini ha gestito la Vineria di piazza delle Vettovaglie. Quando gli chiedo di incontrarci per parlare di loro, militanti passati alle cucine, mi lancia un’occhiata diffidente, però accetta. Ci vediamo al solito bar, della solita piazza Garibaldi. «Questa era la nostra piazza». Inizia con quel parlare in “noi” il suo racconto, un noi che ritroverò. «Noi s’era tutti presi dal cibo, ci piaceva mangiare cose buone. E bere cose buone». Carlo cucina da sempre, l’ha fatto da bambino, da ragazzo, da militante, e ha continuato per mestiere. «Quando ho avuto i soldi per pensare all’acquisto di una casa, ho deciso che in realtà volevo un ristorante. A noi non ci interessava la casa, ci interessava “noi”, cosa si faceva, come era il giorno». È così che nel ’78 lascia l’impiego di portiere al Santa Chiara per aprire Lo schiaccianoci. Sono trascorsi dieci anni da quel “pieno di politica” conosciuto dalla sua generazione, e due dallo scioglimento di Lotta Continua. C’è stato il tempo di riassestarsi, di fare nuovi progetti. 

Altri ex compagni sono al lavoro per aprire L’osteria del violino, in una traversa di via San Martino. Sono Giovanni Bonfanti, Alfonso Vastano, Ettore Masi e Giovanni Mori (gli ultimi due sono ancora soci presso l’Osteria dei Cavalieri e la Sosta dei Cavalieri). Giovanni Mori (foto di apertura), che intervisto nel suo ristorante, era all’epoca un operaio Fiat. Per “il Violino” si licenzia ancora prima che il locale apra: «Per quel posto abbiamo fatto tutto, pure i muratori e gli imbianchini. Alla Fiat fui assunto nel 1967, e subito mi trasferirono a Torino. All’inizio stavo male, malissimo. Lo stipendio lo lasciavo a un signore che aveva una specie di pensione. Poi affittai un appartamento con altri ragazzi, si viveva così. Qualcuno doveva cucinare, quello più portato ero io. Per questo dico sempre che cucinare è stata prima di tutto una necessità. Poi le cose migliorarono, conobbi altri compagni, Lotta Continua, la vita di fabbrica». 

Carlo Silvestrini davanti al Bar Centro.

«Giovanni ha fatto tanto alla Fiat, lo trovi sui libri sul ’68», mi dice Augusto Cava, titolare del Braque Bistrò di via dei Mercanti. «Conoscevo tutti i “compagni ristoratori”: Vanni e Cionini dei Vecchi Macelli, Afo Sartori che aveva l’Artilafo in via Volturno, Carlo Silvestrini e quelli del Violino. I loro locali non erano le solite osterie, proponevano piatti più elaborati, avevano delle idee. Al Violino poi ci si stava benissimo, c’era quella bella griglia in mezzo alla sala. Te lo ha raccontato Mori della scamorza fatta allo spiedo?».  

Sì, me l’ha raccontato, e c’è stato un bel po’ a spiegarmi quest’idea rubata in un viaggio al Sud e arricchita di una piccola sfida: «Facevamo la famosa “scamorza alla fiamma”, rimasta nella Storia. Mi venne in mente che si potevano infilzare le scamorze dentro uno spiedo, per poi girarle a mano, piano piano, perché diventassero colorate fuori e sciolte dentro. Ogni tanto se ne perdeva una, andava a finire nella brace, però era bello, anche perché era fatto in diretta. Era bello da vedere ed erano cose che non si mangiavano, a quel tempo dico». 

Sul punto insiste anche Silvestrini: «Io volevo tirar fuori delle cose, perché mi piaceva. Ai clienti dello Schiaccianoci chiedevo: “Che si fa? Sbagli te o c’indovino io?”.  Così facevo assaggiare delle novità. All’inizio c’era un po’ di titubanza, gli accostamenti e i piatti sembravano strani: il pesce crudo o il petto d’anatra all’aceto balsamico».

Dibattere di cucina è ciò che tutti loro preferiscono, ma Giovanni parla anche di “metodo”, lo chiama proprio così: «Nella nostra idea di ristorazione c’era un metodo: ognuno ci metteva del suo, ma dentro una visione collettiva, come eravamo abituati a fare dalla militanza». 

Carlo Martini, oggi padrone del Di di qua d’Arno, rivendica una lunga storia di ristoratore già dal nome del locale, discendente di quel Di là d’Arno gestito anni fa con “il Lulli e Sandrone”, Renzo Lulli e Sandro Bettin, in seguito diventati artisti.

 «Devi sempre andare avanti – dice Martini – Per me che ho fatto il cameriere tanti anni è pure normale. Faceva parte di noi, eravamo abituati a un ritmo di vita incredibile, non si dormiva mai, e vivevamo sempre insieme. Io abitavo sopra la sede di Lotta Continua in via Palestro, e da casa mia ci passavano tutti. Dopo le riunioni credo di aver sfamato mezza Pisa. Non io, mia moglie che in cucina ci ha sempre avuto l’estro. A casa mia ci sono state le prime riunioni di femministe». «Facevano autocoscienza?» chiedo. «Sì, quella cosa lì», e mi guarda un po’ stupito. Carlo Martini era responsabile del finanziamento di Lotta Continua, un ruolo che gli ha passato direttamente Giovanni Mori. È energico nel descrivere l’impegno quotidiano per finanziare l’organizzazione e il giornale: «Ho tutti i numeri di Lotta Continua, avevo anche un grande archivio di documenti che ho donato alla Biblioteca Serantini».

Era bello fare le cose insieme, dicono, chiudere i locali a tarda notte e mettersi in viaggio per l’Italia, alla scoperta di cantine e ristoranti. «Mica avevamo il rappresentante dei vini, bisognava muoversi», mi spiega Silvestrini. 

«Facevamo tante cose insieme, non c’era invidia», racconta dal canto suo Giovanni Mori. «Potevamo decidere di avventurarci in Piemonte, ad esempio. Allora ci incontravamo il sabato a mezzanotte dopo le chiusure, facevamo un po’ di strada in auto, si dormiva da qualche parte e la mattina eravamo già lì per visitare le cantine. Carlo sul vino ci prendeva e ci prende ancora. Poi facevamo acquisti collettivi per avere degli sconti». 

La fortuna forse è stata questa: fare cose diverse, scoprire prodotti buoni, andare alla ricerca, muoversi verso il cibo come una piccola avanguardia. 

Mentre prendo appunti Silvestrini mi dice: «Potresti scrivere “Il potere all’inventiva”, una frase storica di quei tempi». Potrei.

Fotoreportage – In strada con la Croce Rossa

di Enrico Mattia Del Punta

Lo scorso 25 marzo il nostro fotografo Enrico Mattia Del Punta ha seguito un’uscita dei volontari della Croce Rossa di Pisa impegnati nel progetto “Mai Soli”, ideato per consegnare alimenti e medicinali presso le abitazioni delle persone più minacciate dal Covid-19, ossia anziani e immunodepressi. Il “viaggio”, iniziato dalla sede della Croce Rossa a Ospedaletto, è proseguito tra i supermercati, le farmacie e le case degli utenti.

Negli uffici di via Panfilo Castaldi, a Ospedaletto, i volontari ricevono al telefono gli ordini degli utenti e li inoltrano ai colleghi “sul campo”.

Patrizia all’Esselunga di Pisanova
Seguiamo la spesa di Patrizia all’Esselunga di Pisanova. I supermercati cittadini agevolano il personale della Croce Rossa attribuendogli la priorità nelle file.

Seguiamo Massimo mentre acquista dei farmaci nel centro commerciale di Pisanova. Di solito è operativo nelle ambulanze, ma poiché la sua età lo espone in modo particolare ai rischi del Covid-19, per l’emergenza è stato assegnato al progetto Mai Soli.

Massimo consegna i farmaci acquistati in un appartamento di via del Brennero.

L’ascensore del palazzo è difettoso. Ci spiega Massimo che è proprio per evitare simili complicazioni che agli operatori delle ambulanze è proibito usare l’ascensore. Non si può certo rischiare di rimanere bloccati con un paziente. 

In questo secondo edificio le dimensioni dell’ascensore non garantiscono ai volontari il rispetto della distanza di sicurezza. Massimo e Patrizia sono costretti a usare le scale. 

Ogni volta che i volontari tornano in sede devono sanificare il veicolo utilizzato per gli spostamenti.

Seconda Cronaca indossa una Seconda Pelle

di Franco Farina

Se Pisa diventa tutta un luogo proibito, tutto diventa diverso; se la curiosità investigativa, che è la molla principe del nostro giornalismo, è interdetta, le nostre indagini risultano infattibili e devono essere quanto meno rimandate. Se il rapporto di scambio/condivisione instaurato con i lettori è oggi per niente raccomandabile, i nostri riti di scambio diretto portati avanti negli eventi sono sospesi (peccato perché nel nostro ultimo numero ne avevamo di cose da raccontarvi…). Se tutto è diverso, Seconda Cronaca deve diventare diversa, essere “altro” da sé. Non mutare pelle, ma quanto meno indossarne una seconda, straordinaria. 

E infatti siamo qui, in digitale, in rete prima che in cartaceo, che invece è la nostra prima scelta editoriale su cui ci siamo orgogliosamente inventati. In tempi di coronavirus abbiamo ideato un vascello nuovo, questo, per continuare a informarvi e a riflettere con voi, magari proponendo prospettive e sguardi non facili ed immediati.

Cosa cambia

In questa seconda pelle, Seconda Cronaca diventa anche un po’ prima cronaca. Impossibile non parlare del Virus che tutti tiranneggia, ma cercheremo di parlarne in modo un po’ particolare, quasi sempre tangenziale al problema; tranne nella nostra declinazione fotografica che invece continuerà a essere esplorativa dell’apparentemente unica notizia del giorno.

Cambia il nostro modo di scrivere, perché, a nostro modo di sentire, deve cambiare anche il modo di guardare e raccontare la realtà; se in tempi normali pratichiamo un professionale distacco dall’argomento trattato, cercando di dare informazioni prima che giudizi, qui saremo più inclini ad accettare l’inevitabile coinvolgimento nella situazione cercando/permettendoci anche un contatto empatico col lettore. Tutti concittadini, tutti coinvolti/stravolti nella situazione che ci muta, che ci ha già cambiato, cercheremo comunque di mantenere lucidità professionale nella scelta degli argomenti e nel modo di passarveli.

Saremo più rapidi nell’aggiungere i nostri pezzi, che saranno di lunghezze maggiormente variabile, più reattivi a quello che accade, più o meno a braccetto con l’occhio fotografico.

Cosa non cambia

Non cambia la pretesa di pensare e cercare il non immediato e il non manifesto. La ricerca di un giornalismo policromo che non ama seguire il trend della commercializzazione della paura e dello scandaloso.

Non cambia la nostra voglia di progettare percorsi di indagine più lunghi, in grado di illuminare in modo straordinario e inedito anche ciò che ci sta vicino e che non abbiamo guardato con sufficiente attenzione. Sarà diverso, perché tutto è diverso, ma l’ostinazione dello sguardo vi promettiamo che resterà uguale.

Meningite

I furbetti della meningite

Gli errori della stampa locale sull’epidemia che preoccupa il pisano medio 

di Sandro Noto

Nel corso di un’autentica epidemia, ripensare al clamore mediatico suscitato in Toscana dai casi di meningite del 2015, sembra ancora più grottesco. In questo articolo, pubblicato a novembre 2015 su Seconda Cronaca, Sandro Noto riportava alcune imprecisioni (o persino falsità) della stampa locale, a volte incline al sensazionalismo.  

A definirla “epidemia”, a onor del vero, oltre le locandine de Il Tirreno e La Nazione ci si è messo pure Francesco Menichetti, direttore dell’Unità operativa di Malattie infettive di Cisanello. Durante la conferenza stampa del 16 novembre ha dichiarato: «Nel 2015 la Toscana ha registrato 34 casi di meningite, di cui sette mortali. Ci ostiniamo a non chiamarla epidemia?». Di certo, rispetto agli anni precedenti (16 casi nel 2014, 12 nel 2013 e 18 nel 2011), vi è un peggioramento da contrastare nei modi più efficaci. Tuttavia, poiché “le parole sono importanti”, affidiamoci al dizionario Treccani, che alla voce “epidemia” spiega: “Manifestazione collettiva di una malattia che rapidamente si diffonde, per contagio diretto o indiretto, fino a colpire un gran numero di persone”. 34 soggetti, ossia lo 0,0009% dei 3 milioni e 750 mila toscani, proprio un “gran numero” non è. 

Passando invece al gergo puramente giornalistico, il sensazionalismo praticato dalle testate locali in questa vicenda sembra a tratti mirare allo spargimento di paura. Il 7 settembre, all’indomani del terzo caso di meningite del 2015 in provincia di Pisa, così Mario Neri attacca il suo pezzo sul Tirreno: “Sembra indistruttibile, un’onda che avanza, travolge, si ritira ma senza mai davvero smettere di rimanere in agguato. Il nemico alle porte. È tornata ancora una volta a colpire con il suo gorgo di spettri e paure la meningite”. 

Quando poi piuttosto che ai fatti si pensa ai clamori, spesso accade che di clamoroso ci siano soltanto gli errori di chi scrive. Il 30 marzo, sul Corriere Fiorentino, Viola Centi riferisce che “nel 2015 sono stati cinque i morti per meningite in Toscana: tre a Empoli, uno a Firenze e uno a Pisa”. Falso: in provincia di Pisa, nel 2015, nessuno è morto di meningite.

Il 12 gennaio, sul notiziario online di Radio Toscana, un titolo su un fantomatico caso di meningite a Cenaia, viene smentito dallo stesso articolo che ne segue. Titolo: “Gli diagnosticano otite, 17enne muore per meningite”. Attacco del pezzo: “Un diciassettenne di origine marocchina è morto oggi per una leucemia fulminante”.

La mattina del 24 ottobre a sbagliare sono persino gli addetti ai lavori. La Asl 5 di Pisa emana un comunicato stampa in cui informa che un ventiseienne spezzino, infermiere a Cisanello, è stato colpito da meningite da meningococco C, la più pericolosa. L’Ansa rilancia la notizia che in pochi minuti appare nei siti di vari quotidiani nazionali. Alcune ore dopo, però, arriva la rettifica della Asl 5: “Si tratta di una faringo-tonsillite”.

Vittima di un cattivo giornalismo può essere anche l’economia del territorio. Nel caso del 7 settembre, ad ammalarsi di meningite è stato uno studente sardo residente in città. Il ragazzo, nei giorni precedenti, aveva frequentato la pizzeria “Le Scuderie” e il cinema Odeon. Nel servizio pubblicato da Il Tirreno campeggiano le foto di questi locali ad “allarme contagio”. «Lo studente ha mangiato da noi il 28 agosto – ci dice Salvatore Langella, titolare de “Le Scuderie” – dieci giorni prima che la malattia si manifestasse. A Cisanello però i medici ci sconsigliarono la profilassi, spiegandoci che il periodo di incubazione della malattia è di circa sette giorni. Qui alle Scuderie non c’è stato alcun rischio di contagio, dunque, ma a causa di quegli articoli non ho avuto clienti per una settimana».

«Nei giorni successivi a quel caso – ci spiega uno dei proprietari del cinema Odeon – avevamo in programmazione il film “Roger Waters – The Wall”, e all’ingresso di una sala c’era un pannelo di cartone con dei mattoni disegnati. Una sera, una signora preoccupata mi chiede: “Avete murato la sala dove è stato il ragazzo con la meningite?”».

«È il mio figlio maschio»

di Sandro Noto

Per Sonia Falaschi la sua cioccolateria è un crocevia di affetti. Così ha scelto di non chiudere ai tempi del coronavirus

Uno dei vocaboli che dominano l’attualità è “percorso”. Quell’immutabile sequenza di luoghi che da casa ci conduce alle poche mete consentite: cassonetti, supermercato, farmacia. Tracciati disegnati anche, chissà, dall’imbarazzante auspicio di ridurre la probabilità di incontrare persone.       

La strada della mia quarantena è via San Francesco, da cui transito la mattina per raggiungere l’edicola di Borgo Stretto. Mi allieta ogni volta constatare che, insieme al fruttivendolo, l’unica attività aperta è la cioccolateria “Bon Bon”. Ai miei occhi raffigura un afflato di umano desiderio che resiste alla tragedia.

Dal negozio vuoto, nella strada vuota, irrompe la voce di Sonia Falaschi mentre annota gli ordini al telefono. La sua espressività, coerente ai profumi e agli incarti colorati che la circondano, valica la mascherina. «La futilità della cioccolata è indispensabile per l’umore dei miei clienti abituali – mi confida – Per il mio benessere, invece, devo rendermi utile a loro. Così, poiché la mia licenza include la vendita di generi alimentari, continuo a lavorare trascurando i guadagni: la merce è scontata del 30% e la consegno gratis. Mi ricompensa assecondare le mamme del Sud Italia, che mi chiamano per regalare un uovo ai figli, studenti fuorisede costretti a trascorrere la Pasqua in solitudine. “Recapitare” il loro amore mi commuove».

Rievocando i quarant’anni vissuti nella sua bottega Sonia danza. Fulminea protende le mani verso gli scaffali per mostrare e decantarmi rare delizie che poi mi sprona ad assaggiare. Modula il parlato alternando ricordi allegri e malinconici. A un tratto, consapevole della sua intensità, sorridendo mi confessa: «Scusami tesoro, è la passione. Le mie figlie me lo dicono sempre, forse con un pizzico di gelosia: “Il negozio è il tuo figlio maschio”. L’ho concepito durante un viaggio in Canada nel 1979, ispirata dalle sontuose confetterie scoperte lì. Abbandonai così gli studi in biologia per seguire questo impulso. La nascita di Bon Bon rivoluzionò la proposta dolciaria della Pisa di allora. Offrivo infusi di svariate provenienze, salsa di cipolle, marmellate ungheresi. “L’ho preso da Bon Bon” si iniziò presto a dire in città per sottintendere la raffinatezza dei prodotti acquistati qui». 

Sonia poi sbalza dalle memorie al 2021: «L’anno prossimo andrò in pensione e cederò l’attività. Sarà innaturale però, perché…». Esita cercando le parole giuste. «Perché Bon Bon sono io».