Che fine ha fatto la stella Michelin?
L’ultima in centro nel 1995. E non è (solo) un problema di cuochi
La notizia di poche settimane fa, l’apertura a Terricciola di un resort con annesso ristorante da parte dello chef stellato Antonino Cannavacciuolo, nasconde un sapore amaro. In quei giorni la stampa locale scriveva di Pisa e di stelle Michelin, ma ciò non stava avvenendo perché un nostro ristorante era emerso tra i migliori. Un grande cuoco dava inizio al suo progetto pisano, un’ottima notizia. Ma ci ha ricordato che le stelle Michelin esistono ancora e che da Pisa sono sparite da decenni. Nel 2022 la guida francese ne ha assegnate 40 alla Toscana e noi non ci siamo, punto. Tristezza profonda, sgomento. Nella nostra storia, di stelle ne abbiamo avute 33 e per due volte, alla fine dei ‘70 e all’inizio dei ‘90, ci sono stati due ristoranti stellati in città. Negli anni ‘80 eravamo protagonisti della cucina italiana con Sergio Lorenzi e il suo “Sergio” sul Lungarno Pacinotti, 18 stelle Michelin consecutive dal 1978 al 1995, anno in cui queste abbandonano definitivamente il centro cittadino. Dà una piacevole sensazione usare il plurale in questo contesto, dire “noi” eravamo un riferimento della cucina nazionale, lo possiamo affermare con orgoglio. Allo stesso modo dovremmo constatare che siamo “noi”, tutti come comunità, a uscirne ammaccati quando la stella manca, e da così tanto tempo, dal centro di Pisa. E non per la stella in sé, ma per la stella come sintomo di un contesto di creatività e menti ingegnose. Quel contesto che da qualche anno pare soffra a emergere. I numeri, gloriosi del passato e assenti nel presente, mostrano due ere ancora più distanti se contestualizzati. Non che diventare stellati oggi sia facile, ma gli anni ‘80 erano un altro mondo, senza Internet, senza chef celebrità e con molto meno know-how in Italia su cosa volesse dire fare alta ristorazione. I cuochi pisani di allora erano pionieri, ma di un concetto assai confuso per il pubblico italiano, una cosa considerata per ricchi e vista con scetticismo, specialmente a Pisa, città popolare e studentesca. Due dati aiutano a calibrare ieri con oggi: solo nel 1986, mentre Lorenzi festeggia la sua nona stella Michelin, arrivano le prime “3 Stelle” italiane. Sono passati 30 anni da quando la guida Michelin ha esteso la copertura delle sue revisioni all’Italia. Se le aggiudica Gualtiero Marchesi, che diventerà un’istituzione. Oggi i tristellati in Italia sono 11. Secondo dato: lo stesso termine “stellato”, se riferito alla ristorazione, non esisteva nella lingua italiana. Il vocabolario Treccani lo ha aggiunto tra i neologismi soltanto nel 2008.
Alla macro analisi si sommano gli effetti micro, quelli locali, specifici del territorio. Per studiarne l’andamento, la Confesercenti di Pisa ha ideato oltre quindici anni fa l’Osservatorio sul turismo enogastronomico. Compito dei gruppi di lavoro che lo compongono è realizzare indagini a campione per comprendere le abitudini degli utenti. Gli aspetti analizzati dalla Commissione per la valutazione dei ristoranti di Pisa variano ogni anno. Due dei risultati più interessanti si trovano nel report del 2015. Il primo: quando un livornese o un lucchese decide di venire a cena a Pisa lo fa, oltre che per ovvie ragioni di vicinanza, spinto dalla bellezza della città o per motivi di lavoro nel 25% dei casi e solo nel 4% per i ristoranti. Pisa peraltro si colloca quarta dopo Livorno, Lucca e Viareggio tra le destinazioni scelte per cena tra gli abitanti della zona. Il secondo numero è ancora più inquietante: se si tratta di cenare fuori il 90% dei livornesi rimane a Livorno, il 72.5% dei lucchesi resta a Lucca e solo il 50.4% dei pisani sceglie Pisa. Cioè un pisano su due lascia Pisa se esce per cena. Alessandro Fenu è docente all’Istituto alberghiero “Matteotti” di Pisa, formatore di personale negli hotel e per anni è stato membro della commissione che realizzava questi report: «I dati parlano chiaro: le persone tornano nei ristoranti nel 51% dei casi per come sono stati accolti, non per come hanno mangiato. Quindi Pisa non ha un problema di cucine, ha un problema di accoglienza, di sala». Per Fenu questo è un fatto specifico della città di Pisa che non si riscontra nelle province vicine, è quella sensazione che i pisani considerino tendente al ruffiano chi fa solo il gentile. L’insegnante Fenu non è indulgente con la sua stessa categoria quando dalla sala passiamo ai fornelli: «Sulla cucina la formazione ha la sua grossa fetta di responsabilità. Non siamo più credibili verso gli studenti, le ore di laboratorio sono state decimate e diamo incarichi a docenti a loro volta non formati, con esperienze minime, spesso in realtà mediocri. Nella nostra scuola abbiamo ventunenni neodiplomati che insegnano materie professionali. Una volta in un laboratorio ho visto con i miei occhi un giovane docente fermare la lezione perché non sapeva fare la crema pasticcera».
L’ultima brigata di successo sul territorio pisano la guidava il garfagnino Luca Landi, chef stellato di “Lunasia”, ristorante dal cuoco interamente concepito. Lunasia è oggi a Viareggio, ospite dell’Hotel Plaza e de Russie, ma è nato a Tirrenia e rimasto per qualche anno nelle strutture del Green park resort. Quando “Lunasia” si guadagna la prima stella Michelin nel 2012, dopo che per due decenni questa era mancata dalla città, il sindaco di Pisa Filippeschi chiama Landi per congratularsi con 5 mesi di ritardo. Discutiamo proprio del rapporto con il territorio quando incontriamo lo chef e i suoi sentimenti sono contrastanti: «Alcuni dei prodotti che amo di più sono pisani, specialmente del Parco. Li uso nei miei piatti, ma non senza difficoltà. Per due chili di ricotta di pecora, che è strepitosa, a volte chiamo il produttore dieci volte. C’è Donatella Baldi a San Rossore che produce miele su una spiaggia, una cosa unica, ma glielo devo vendere io direttamente al ristorante perché trovarlo è impossibile. E i pinoli del Parco, i migliori, sfido chiunque a trovarli in meno di cinque giorni». È deludente. Non tanto per la visibilità che un grande ristorante offre a un piccolo produttore, ma perché l’essenza della cucina è trovare nuove vie per gli ingredienti, anche quelli che riteniamo intoccabili. «Io con il mucco pisano ci faccio una carne fermentata (servita sorprendentemente tra la piccola pasticceria, ndr) che secondo me lo valorizza molto più di una griglia. In Giappone ho lavorato nel ristorante di Seiji Yamamoto (un gigante, il più importante innovatore della cucina giapponese, ndr) che ha preso un ingrediente tradizionale come il katsuobushi, che è pesce fermentato essiccato, e ne ha studiato una versione affumicata con il produttore. Queste interazioni sono vitali. Io adesso, per un lavoro che sto mettendo a punto, ho bisogno di una ricotta più secca, e mi vengono i brividi se penso di discuterne con il produttore». E comunque, prima, bisogna che il produttore risponda al telefono.