A Pisa l’ossessione per le auto soffoca la ciclabilità

L’incrocio tra la ciclabile di via Garibaldi e il tunnel di via degli Artigiani. Foto di Michela Biagini

Renate Altmeyer è stata uccisa a Pisa lo scorso 11 ottobre da un automobilista. Circolava con la patente sospesa per ragioni psicofisiche e ha travolto la donna sull’attraversamento ciclopedonale di via Porta a Mare. Lei proveniva in bicicletta da Marina di Pisa, dove stava villeggiando in camper con il marito.

Era tedesca di Haltern am See, una cittadina della Renania con un terzo degli abitanti di Pisa e il triplo delle piste ciclabili (circa 170 km, fonte radfahren-haltern.de). Ai soccorritori, riportano le cronache, il marito avrebbe confidato che lassù Renate si spostava sempre in bici. Mortifica, così, riconoscere che stiamo condannando i nostri ospiti a una mobilità inadeguata ai loro standard, esponendoli a dei rischi (Pisa riceve dal Nord Europa la metà dei suoi turisti, in testa Germania e Paesi Bassi).

La ciclabilità pisana ha un carattere subdolo. Alcuni indicatori svelano delle virtù, benché siano riferiti al modesto panorama italiano. Rappresentiamo l’ottavo comune capoluogo di provincia per numero di abbonati al bike sharing (rapporto Focus 2R 2021 di Legambiente e Confindustria). Il venticinquesimo per metri quadri pro capite di piste ciclabili (Ecosistema Urbano 2021 di Legambiente). E beneficiamo già dal 2008 della “Consulta della bicicletta”, che aggrega svariati soggetti legati alla mobilità
(Comune, Legambiente, Pisamo, Polizia Municipale, Fiab e altri) per emendare i progetti preliminari delle infrastrutture urbane a favore della ciclabilità.

Ulteriori riscontri palesano invece la marginalità della bici, ritenuta un optional, non un’alternativa all’invasione degli autoveicoli, capace di ispirare un’evoluzione della città. La statistica più eloquente compare nel rilevamento del transito di ciclisti sui lungarni, effettuato nel 2019 da Fiab, Ufficio Bici (Pisamo) e Legambiente. Se sul Ponte di Mezzo le biciclette registrano il 22,7% dei passaggi rispetto agli altri mezzi di trasporto, sul Ponte della Vittoria precipitano al 6,8%, calando persino al 4,6% sul Ponte Solferino. È la spietata fotografia della ciclabilità pisana: massiva in Ztl, irrilevante in periferia, dove spesso i percorsi sono insicuri. A tale riguardo il “Piano urbano della mobilità sostenibile” (Pums), redatto nel 2020 dal Comune di Pisa, racchiude un dato emblematico. Per raggiungere Ospedaletto e Montacchiello dalla Stazione Centrale, un ciclista si imbatte in un tracciato “promiscuo” al 91%, ossia condiviso con gli automezzi. In parole povere le migliaia di lavoratori dell’area industriale non dispongono di collegamenti ciclabili verso il principale snodo del trasporto pubblico locale, malgrado la distanza di appena cinque chilometri. Eppure a Pisa la mobilità dolce è da vent’anni nell’agenda delle amministrazioni comunali: perché resistono simili lacune? 

29 giugno 2021, seduta consiliare. Francesco Auletta (gruppo “Diritti in Comune”) interpella Massimo Dringoli, assessore all’Urbanistica, sull’illecita assenza della pista ciclabile lungo la rotatoria tra il ponte del Cep e viale D’Annunzio, terminata a maggio. Auletta allude alla legge 366 del 1998, che impone di affiancare dei percorsi ciclabili alle strade di nuova costruzione o ai tratti sottoposti a manutenzione straordinaria. Dringoli obietta che l’ampliamento del cantiere per l’aggiunta della pista avrebbe implicato ulteriori espropriazioni, ritardando così un’opera essenziale per mitigare gli ingorghi estivi. Morale: per agevolare le automobili si calpesta la ciclabilità, persino a scapito delle regole. Infine l’assessore si discolpa rammentando le numerose rotatorie di Pisa posteriori al 1998 e difformi dalla legge 366 (ossia, “mal comune mezzo gaudio”). Una difesa che si trasforma in un’accusa inconsapevole a una generazione di dirigenti: da vent’anni se ne fregano tutti.

A Pisa sopravvive un’anacronistica cultura “autocentrica”, che talvolta compiace le esigenze dei ciclisti, ma non rinuncia alla supremazia dell’automobile

A Pisa sopravvive, perciò, una trasversale e anacronistica cultura autocentrica, che talvolta compiace le esigenze dei ciclisti, ma non rinuncia alla supremazia dell’automobile. Non stupisce quindi la crescita in città del numero di macchine circolanti ogni cento abitanti: 58 nel 2015, 61 nel 2019 e 63 nel 2020, il doppio rispetto a Londra e Parigi (dati Aci). Un’involuzione assecondata dal Comune, che annuncia nel Pums la realizzazione di circa 2.700 nuovi parcheggi nel centro urbano, sacrificando peraltro le aree verdi di via delle Trincere e del bastione del Barbagianni. Il tutto mentre Pisa, all’insaputa dei più, svetta nella peggiore delle classifiche: siamo la quinta città in Italia per numero di vittime della strada (dati Aci-Istat 2020).

Pisa svetta nella peggiore delle classifiche: siamo la quinta città in Italia per numero di vittime della strada

È evidente così che non bastano delle isolate iniziative per la ciclabilità, seppur significative (il Pums prevede addirittura l’estensione della rete ciclabile dagli attuali 52 chilometri a 125). Come sostiene Gianni Stefanati, storico responsabile dell’Ufficio Bici di Ferrara, per affermare la mobilità dolce bisogna disincentivare l’ossessione dell’automobile. Fiab Pisa propone di trasformare l’intera città in zona 30, mantenendo il limite di 50 km/h nelle arterie principali. Insieme l’associazione suggerisce di restringere le carreggiate per obbligare le auto a rispettare il vincolo, riconvertendo gli spazi a favore di pedoni e ciclisti. Accetteremo mai una simile rivoluzione?

A volte capita di trovare delle immagini di piazza dei Cavalieri degli anni Settanta. Osservando l’enormità di auto parcheggiate ci si chiede: com’è stato possibile? La risposta è che i cittadini del tempo non erano culturalmente adeguati per criticare quel modello. Chissà se i pisani del futuro, di fronte a una foto dei lungarni intasati datata 2021, penseranno di noi la stessa cosa.


Editoriale pubblicato sul numero 5 – Anno 8